Art. 1127 c.c. – Sopraelevazione – Nuove costruzioni – Regolamento condominiale contrattuale – Decoro architettonico
La realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) nell’area sovrastante il fabbricato da parte del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio Va disciplinata alla stregua dell’art. 1127 c.c.
Ai fini dell’art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è, infatti, costituita dalla realizzazione di nuove costruzioni nell’area sovrastante il fabbricato, per cui l’originaria altezza dell’edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche (Cass. 24 gennaio 1983 n. 680; Cass. 10 giugno 1997 n. 5164; Cass. 24 ottobre 1998 n. 10568; Cass. 7 settembre 2009 n. 19281; Cass. 15 giugno 2020 n. 11490). Nella definizione enunciata dal massimo consesso di questa Corte (Cass., Sez. Un., 30 luglio 2007 n. 16794), la nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende, peraltro, non solo il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l’incremento delle superfici e delle volumetrie, seppur indipendentemente dall’aumento dell’altezza del fabbricato.
Non vi è sopraelevazione, viceversa, agli effetti dell’applicabilità della richiamata disposizione, in ipotesi di modificazione solo interna ad un sottotetto, contenuta negli originari limiti strutturali, delle parti dell’edificio sottostanti alla sua copertura.
La pronuncia si pone in evidente contrasto con l’orientamento costante di questa Corte e con il chiaro disposto dell’art. 1127, comma secondo e terzo c.c., secondo cui la sopraelevazione non è ammessa, non solo se le condizioni statiche dell’edificio non la permettono, ma anche se risulti lesiva dell’aspetto architettonico dell’edificio ovvero risulti necessaria l’autorizzazione dei condomini.
Il Giudice distrettuale non poteva considerare legittima la costruzione senza – di fatto – valutarne oltre all’impatto sull’aspetto architettonico dell’edificio in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile (Cass. n. 17350 del 2016; Cass. n. 10048 del 2013; Cass. n. 2865 del 2008), anche alla luce delle previsioni del regolamento condominiale di natura contrattuale, eventualmente più restrittive (Cass. n. 7398 del 1986; più di recente: Cass. n. 14898 del 2013; Cass. n. 1748 del 2013; Cass. 10848 del 2019).
E’ costante l’orientamento di questa Corte (in termini, Cass., Sez. Un., n. 10934 del 2019) secondo cui un regolamento di condominio cosiddetto “contrattuale”, ove abbia ad oggetto la conservazione dell’originaria “facies” architettonica dell’edificio condominiale, comprimendo il diritto di proprietà dei singoli condomini mediante il divieto di qualsiasi opera modificatrice, stabilisce in tal modo una tutela pattizia ben più intensa e rigorosa di quella apprestata al mero “decoro architettonico” dagli artt. 1120 comma 2 (nella formulazione, qui applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), e 1138, comma 1 c.c., con la conseguenza che la realizzazione di opere esterne integra di per sé una modificazione non consentita dell’originario assetto architettonico, che giustifica la condanna alla riduzione in pristino in caso di sua violazione.
S E N T E N Z A
sul ricorso Omissis proposto da:
Condominio XXXXX, in persona dell’Amministratore pro tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avvocato Omissis del foro di Foggia ed elettivamente domiciliato agli indirizzi PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
– ricorrente –
contro
YYYYY, rappresentati e difesi dall’avvocato Omissis del foro di Omissis, come da procura speciale in calce al controricorrente, ed elettivamente domiciliati agli indirizzi PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 477/2018 della Corte di appello di Bari, pubblicata il 15 marzo 2018 e notificata in pari data;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 7 dicembre 2022 dal Consigliere relatore Dott.ssa Omissis;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Omissis, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
sentito l’avvocato Omissis, per parte ricorrente e l’avvocato Omissis, per parte resistente.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 22 ottobre 2007 il Condominio XXXXX, sito in Omissis evocava – dinanzi
al Tribunale di Foggia – YYYYY nella qualità di comproprietarie, per parti ben definite, di appartamento posto al piano attico dello stabile, chiedendone la condanna alla rimozione di una veranda realizzata nella loro abitazione in violazione degli artt. 1127 e 1120, comma 2 c.c., nonché del regolamento condominiale e dello stesso atto di acquisto del bene. Esponeva il Condominio che la YYYYY aveva chiesto ed ottenuto, con delibera del 20.09.2000, dall’assemblea condominiale autorizzazione alla installazione di una pensilina a parziale copertura del proprio terrazzo a livello;
che successivamente la medesima condomina aveva provveduto al frazionamento dell’appartamento ricavandone due unità immobiliari, una delle quali era stata ceduta alla figlia, Omissis, e che in seguito le convenute avevano tamponato la pensilina in questione realizzando una veranda, con struttura in vetro e muratura, e con copertura non più in lamiera grecata (come autorizzata dall’assemblea condominiale) ma in polistrato, in tal modo aumentando il volume abitabile.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza della YYYYY, le quali in via subordinata chiedevano condannarsi il Condominio al risarcimento dei danni subiti a causa dell’ingiustificata pretesa attorea, il giudice adito, con sentenza n. 610 del 2013, svolta dal Condominio ulteriore domanda in via subordinata di condanna delle convenute al pagamento di un indennizzo per la sopraelevazione realizzata, istruita la causa con c.t.u., rigettava la domanda attorea principale e dichiarava inammissibile quella subordinata, regolava le spese di lite in conseguenza.
In virtù di rituale impugnazione interposta dal Condominio, la Corte di appello di Bari, nella resistenza delle appellate, rigettava l’appello e per l’effetto confermava la decisione gravata.
A sostegno della decisione adottata il giudice dell’impugnazione rilevava che il manufatto oggetto di causa sebbene fosse stato realizzato dalle appellate in difformità di quello assentito dall’assemblea condominiale, non alterava in alcun modo l’aspetto architettonico ed il decoro dell’edificio, come emergeva chiaramente dall’accertamento tecnico e dalle foto allegate.
Infatti, pur vero che il manufatto era visibile dalla parte posteriore rispetto al prospetto del Condominio, tuttavia era evidente che sarebbe stato altrettanto visibile e con analogo ingombro qualora fosse stato realizzato con una diversa copertura o non fosse stata chiusa a vetri.
Condivideva, pertanto, la decisione del giudice di prime cure che aveva ritenuto che il manufatto non pregiudicasse l’aspetto esteriore dell’edificio condominiale, inserendosi i materiali utilizzati perfettamente nell’architettura dell’edificio. Né sussisteva la paventata situazione di pericolo per avere il c.t.u. accertato, attraverso l’espletamento di prove di carico, che “la verifica di tipo statico dei carichi ammissibili sul solaio” rientrava nei parametri di ammissibilità, non condivisibili le contestazioni della parte appellante al riguardo, circa la normativa sulla sicurezza sismica, che oltre ad essere inammissibili perché non formulate in sede di note critiche alla c.t.u., erano state correttamente superate dall’ausiliario del giudice proprio alla luce delle verifiche tecniche effettuate.
Infine il manufatto non incideva in alcun modo, per come realizzato, sull’aria e la luce dei piani sottostanti.
Condivideva, da ultimo, anche la pronuncia di inammissibilità della ulteriore domanda del Condominio (definita “riconvenzionale”) per tardività.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Bari ha proposto ricorso l’originario attore, sulla base di cinque motivi, cui hanno resistito con controricorso le YYYYY.
Posto in discussione il ricorso per la decisione allo stato degli atti all’udienza pubblica del 7 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020, in prossimità della quale è stata depositata dal sostituto procuratore generale, dott. Omissis, memoria con la quale ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso, parte ricorrente ha formulato istanza di discussione orale della controversia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Per un’ordinata trattazione occorre esaminare preliminarmente le eccezioni di inammissibilità dedotte nel controricorso per violazione dei principi di autosufficienza e di specificità del ricorso, nonché dell’art. 366, comma 1 nn. 3 e 6 c.p.c.
Le eccezioni sono infondate. Come statuito da questa Corte, “il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.” (Cass., Sez. Un., n. 37552 del 2021). Si è anche precisato che non è causa di inammissibilità l’inserimento nel corpo del ricorso di copie fotostatiche o scannerizzate di atti relativi al giudizio di merito, qualora la riproduzione integrale di essi sia preceduta da una chiara sintesi dei punti rilevanti per la risoluzione della questione dedotta (v. Cass., Sez. Un., n. 4324 del 2014).
Il ricorso in esame contiene una adeguata esposizione dei fatti di causa e delle questioni giuridiche sollevate nonché la trascrizione dei motivi di appello formulati avverso la decisione del giudice di prime cure; comprende, inoltre, ampie argomentazioni sui dedotti vizi di violazione delle norme specificamente invocate. Si sottrae pertanto alle censure mosse ai sensi del citato art. 366 c.p.c.
D’altra parte, anche il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., quale corollario del requisito di specificità dei motivi – anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021 – non deve essere interpretato in modo eccessivamente formalistico, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e non può pertanto tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito (così Cass., Sez. Un., n. 8950 del 2022; v. anche Cass. n. 12481 del 2022); requisiti nella specie rispettati.
Venendo al merito, con il primo motivo il Condominio lamenta la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., degli artt. 112 e 324 c.p.c. ovvero per nullità della sentenza per omessa pronuncia sul primo motivo di appello circa la violazione dell’art. 1127 c.c. in relazione al divieto posto dal titolo e all’accertamento con effetto di giudicato della sopraelevazione, oltre a vizio di motivazione (art. 111 Cost. e 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 c.p.c.). Ad avviso del Condominio, in realtà la delibera condominiale del 20.09.2000 presa in esame era stata assunta, con tutte le riserve e con esclusione di qualche condomino, al solo fine di ovviare alle lamentate infiltrazioni di acqua piovana nelle giornate ventose, come evidenziato nella relazione tecnica allegata alla medesima quale parte integrante, tanto che consentì di realizzare “una pensilina amovibile, a parziale copertura del terrazzo a livello della YYYYY, in lamiera grecata zincata poggiante su una struttura in canne di ferro leggera”, in quanto essendo aperta e poggiante su modeste canne di ferro, senza opere strutturali di base e di tamponamento, non avrebbe inciso sull’architettura od estetica del fabbricato, o comunque avrebbe avuto un impatto lievissimo. Insiste il Condominio che il divieto di modificare in qualunque modo l’architettura dell’edificio o di effettuare opere aggiuntiva, previsto dall’art. 7 del regolamento condominiale, integrava di per sé un divieto di modificare l’originario assetto architettonico dell’edificio. Sicchè essendo vietata la sopraelevazione, il manufatto realizzato è da ritenersi illegittimo oltre i limiti autorizzati, in deroga a tale divieto (semplice tettoia), per cui anche la sola violazione della delibera giustifica la richiesta di riduzione in pristino.
Il motivo è fondato.
La realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) nell’area sovrastante il fabbricato da parte del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio Va disciplinata alla stregua dell’art. 1127 c.c.
Ai fini dell’art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è, infatti, costituita dalla realizzazione di nuove costruzioni nell’area sovrastante il fabbricato, per cui l’originaria altezza dell’edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche (Cass. 24 gennaio 1983 n. 680; Cass. 10 giugno 1997 n. 5164; Cass. 24 ottobre 1998 n. 10568; Cass. 7 settembre 2009 n. 19281; Cass. 15 giugno 2020 n. 11490). Nella definizione enunciata dal massimo consesso di questa Corte (Cass., Sez. Un., 30 luglio 2007 n. 16794), la nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende, peraltro, non solo il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l’incremento delle superfici e delle volumetrie, seppur indipendentemente dall’aumento dell’altezza del fabbricato.
Non vi è sopraelevazione, viceversa, agli effetti dell’applicabilità della richiamata disposizione, in ipotesi di modificazione solo interna ad un sottotetto, contenuta negli originari limiti strutturali, delle parti dell’edificio sottostanti alla sua copertura.
Tanto chiarito, la lettura della sentenza mostra che la Corte di merito ha escluso l’illegittimità della sopraelevazione, rilevando che la nuova costruzione era stata eretta sul lastrico di proprietà esclusiva delle resistenti, sostenendo inoltre che, in tale ipotesi, sebbene l’opera realizzata dalle condomine, costituita da una struttura chiusa, sostenuta da montanti in ferro e coperta con ‘lamiera zincata coibentata’ e chiusa ‘con una vetrata realizzata con dei profilati in alluminio con vetro camera del tipo con apertura scorrevole e rimovilibi’, non fosse conforme a quella autorizzata dal condominio con la deliberazione assembleare del 20.09.2000 (realizzazione di una tettoia in ‘materiale removibile, poggiante su una ‘struttura in canne di ferro leggere’ “al solo fine di ovviare alle lamentate infiltrazioni di acqua piovana nelle giornate ventose”), tuttavia non ha ritenuto di disporre la rimozione richiesta in quanto l’opera non altera l’aspetto architettonico ed il decoro dell’edificio, come si evinceva dalle fotografie allegate.
La pronuncia si pone in evidente contrasto con l’orientamento costante di questa Corte e con il chiaro disposto dell’art. 1127, comma secondo e terzo c.c., secondo cui la sopraelevazione non è ammessa, non solo se le condizioni statiche dell’edificio non la permettono, ma anche se risulti lesiva dell’aspetto architettonico dell’edificio ovvero risulti necessaria l’autorizzazione dei condomini.
Il Giudice distrettuale non poteva considerare legittima la costruzione senza – di fatto – valutarne oltre all’impatto sull’aspetto architettonico dell’edificio in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile (Cass. n. 17350 del 2016; Cass. n. 10048 del 2013; Cass. n. 2865 del 2008), anche alla luce delle previsioni del regolamento condominiale di natura contrattuale, eventualmente più restrittive (Cass. n. 7398 del 1986; più di recente: Cass. n. 14898 del 2013; Cass. n. 1748 del 2013; Cass. 10848 del 2019).
E’ costante l’orientamento di questa Corte (in termini, Cass., Sez. Un., n. 10934 del 2019) secondo cui un regolamento di condominio cosiddetto “contrattuale”, ove abbia ad oggetto la conservazione dell’originaria “facies” architettonica dell’edificio condominiale, comprimendo il diritto di proprietà dei singoli condomini mediante il divieto di qualsiasi opera modificatrice, stabilisce in tal modo una tutela pattizia ben più intensa e rigorosa di quella apprestata al mero “decoro architettonico” dagli artt. 1120 comma 2 (nella formulazione, qui applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), e 1138, comma 1 c.c., con la conseguenza che la realizzazione di opere esterne integra di per sé una modificazione non consentita dell’originario assetto architettonico, che giustifica la condanna alla riduzione in pristino in caso di sua violazione.
La Corte di appello non ha tuttavia compiuto alcun accertamento sul punto, omettendo di valutare se l’intervento delle condomine poteva ritenersi vietato alla luce della clausola contenuta nell’art. 9 del regolamento condominiale, di cui alla previsione dell’atto di acquisto del 19.09.1979. L’accertamento della Corte di appello non risulta quindi completo, avendo ignorato un profilo di fatto rilevante ai fini della decisione da prendere, puntualmente rappresentato dalla parte attrice, considerata peraltro la diversità sostanziale dell’opera realizzata (vano chiuso) rispetto a quella autorizzata con la delibera assembleare del 20.09.2000 costituita da una pensilina amovibile del tutto aperta.
Il motivo merita pertanto di essere accolto.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione – ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. – degli artt. 1127, comma 1 e 3 e 1120, comma 2 c.c. in relazione al divieto di alterazione dell’aspetto architettonico, di quello estetico e del decoro, imposto anche dal titolo di acquisto e dal regolamento contrattuale, oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., e vizio di motivazione in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. per motivazione illogica o perplessa.
Con il terzo motivo il Condominio deduce la violazione degli artt. 1127, comma 2, 1120, 2727 – 2729 c.c., legge n. 64 del 1974 e D.M. 16.01.1996 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.; violazione degli artt. 111, comma 6 Cost. e 132, comma 2 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 per motivazione perplessa od illogica; omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1127, comma 4 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché degli artt. 99 e 183 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.; motivazione omessa od apparente in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. con riferimento al rigetto della domanda subordinata di indennità di sopraelevazione sul presupposto che fosse tardiva in quanto proposta alla prima udienza di trattazione, senza tenere conto che era conseguenza della riconvenzionale e delle eccezioni avversarie.
Con il quinto motivo il Condominio si duole della violazione dell’art. 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio ovvero motivazione perplessa od illogica in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.
I restanti quattro motivi sono assorbiti per effetto dell’accoglimento del primo motivo di ricorso, essendo rimesso al giudice di rinvio il compito di riesaminare le questioni sollevate, previo accertamento della legittimità della sopraelevazione.
Conclusivamente, il ricorso va accolto e cassata la sentenza impugnata con rinvio alla stessa Corte di appello di Bari, in diversa composizione, che provvederà al riesame della vicenda alla luce dei principi sopra illustrati.
In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso;
cassa la sentenza impugnata e rinvia alla medesima Corte di appello di Lecce, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2022.