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CASSAZIONE CIVILE SENTENZA N. 12636/2023 DEL 10 MAGGIO 2023

S E N T E N Z A

sul ricorso Omissis proposto da:
Condominio XXXXX, in persona dell’Amministratore pro tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del ricorso, dall’avvocato Omissis del foro di Omissis ed elettivamente domiciliato in Omissis, presso lo studio dell’avvocato Omissis;
– ricorrente –
contro
YYYYY, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato YYYYY come da procura speciale a margine dell’ultima pagina del controricorso ed elettivamente domiciliata in Omissis, presso lo studio del difensore;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
e contro
CCCCC, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Omissis del foro di Omissis e Omissis del foro di Omissis come da procura speciale a margine del controricorso ed elettivamente domiciliata in Omissis, presso lo studio del secondo difensore;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. della Corte di appello di Torino del 20 ottobre 2017, comunicata a mezzo p.e.c. in data 25.10.2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’udienza pubblica del 7 dicembre 2022 dal Consigliere relatore Dott.ssa Omissis, tenutasi ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020;
letta la memoria udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Omissis, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Condominio XXXXX sito in Omissis evocava, dinanzi al Tribunale di Ivrea, in qualità di condomina, la CCCCC, in qualità di conduttrice, la YYYYY, e in qualità di ex conduttrice, la Omissis, lamentando che le stesse utilizzavano in via esclusiva, in assenza di titolo, una porzione di suolo di proprietà comune, della superficie di mq. 121,47, posta all’esterno dei locali di proprietà della CCCCC, impedendo il pari uso agli altri condomini mediante l’apposizione di due cancelli;
chiedeva, pertanto, l’accertamento della proprietà comune dell’area de qua e il suo rilascio, oltre alla rimessione in pristino e al risarcimento del danno.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza della CCCCC, che eccepiva il difetto di legittimazione attiva dell’Amministratore in assenza di autorizzazione del Condominio e la competenza del Giudice di pace, e della YYYYY, che eccepiva la necessità del litisconsorzio con tutti i condomini, proposto intervento volontario dai condomini, Omissis in adesione alle posizione del Condominio, il giudice adito, istruita la causa, con sentenza n. 382 del 2016, accoglieva la domanda attorea e dichiarava che lo spazio individuato nel Regolamento e nell’allegata planimetria come “pensilina lato est” era di proprietà del Condominio, respinte le restanti istanze, con attribuzione delle spese di lite in base alla soccombenza.
Il giudice di prime cure, ritenuta la legittimazione attiva dell’amministratore ai sensi dell’art. 1130 n. 4 c.c., trattandosi di azione non qualificabile come rei vindicatio, non venendo in rilievo un’incertezza sulla proprietà del bene, pacificamente del Condominio, ma l’uso esclusivo dello stesso da parte dei convenuti, per cui doveva qualificarsi quale azione personale, trovando fondamento nell’asserito sopravvenuto venir meno del titolo di detenzione del bene da parte delle società convenute. Da ciò derivava che non si verteva in ipotesi di litisconsorzio necessario con i condomini; inoltre venendo in rilievo una fattispecie di cui all’art. 1102 c.c. questa radicava la competenza del giudice adito. Nel merito, il giudice accertava che la condomina CCCCC aveva locato alla YYYYY un bene condominiale, quale la pensilina est, di cui la locatrice al momento della conclusione del contratto di locazione aveva la detenzione esclusiva e qualificandola come comodataria, in virtù della delibera n. 12 del 08.02.2011, con la quale l’assemblea aveva deciso di “affittare una porzione delle parti comuni alla CCCCC della parte dietro per uso scarico merci ad uso gratuito permanente”. Aggiungeva che in seguito, con le delibere del 26.06.2012 il Condominio aveva revocato quelle n. 4 del 07.09.2010 e n. 12 dell’08.02.2011, deliberando di chiedere un indennizzo per l’occupazione del bene comune. Alla luce di quanto sopra riteneva che il vincolo contrattuale con la YYYYY fosse validamente sorto, avendo avuto la CCCCC la disponibilità esclusiva e qualificata del bene comune al momento della stipula del contratto di locazione e non sussistendo alcuna opposizione dei condomini sul punto in tempo antecedente alla conclusione della locazione, né vi era spazio per il risarcimento dei danni ma al più per il canone di locazione non richiesto.
In virtù di rituale impugnazione interposta dal Condominio, la Corte di appello di Torino, nella resistenza delle società appellate, con ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. dichiarava la inammissibilità dell’appello.
A sostegno della decisione adottata il giudice dell’impugnazione, condividendo le affermazioni del giudice di prime cure, rilevava che il rapporto intercorso fra la CCCCC ed il Condominio era da qualificare in termini di comodato, per cui l’appellante avrebbe dovuto agire nei confronti della CCCCC sulla base di siffatto rapporto, mentre ciò non era avvenuto per avere insistito nelle domande introdotte in primo grado, solo in appello invocata la violazione dell’art. 1804 c.c.
Per la cassazione dell’ordinanza della Corte di appello e, in subordine, avverso la sentenza di primo grado, ha proposto ricorso l’originario attore, sulla base di cinque motivi, cui hanno resistito con separati controricorsi la CCCCC e la YYYYY, contenente quello di quest’ultima anche ricorso incidentale condizionale affidato a due motivi. 
Posto in discussione il ricorso per la decisione allo stato degli atti all’udienza pubblica del 7 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020, in prossimità della quale è stata depositata dal sostituto procuratore generale, dott. Tommaso Basile, memoria con cui ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso principale, assorbito quello incidentale.
La sola YYYYY ha curato il depositato anche di memoria ex art. 378 c.p.c.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il primo motivo di ricorso denuncia il Condominio denuncia la violazione degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c. per avere la Corte di merito ritenuta “giusta” la decisione del primo giudice sulla base di un diverso percorso argomentativo, in particolare laddove ha ritenuto che il rapporto intercorso fra il Condominio e la CCCCC andrebbe ricondotto alla fattispecie del comodato, dedotto solo nel giudizio di appello la violazione dell’art. 1804 c.c. Così argomentando, ad avviso del ricorrente, avrebbe compiuto un salto logico rispetto alla sentenza impugnata, travisandone il fondamento ovvero dandole un fondamento affatto diverso.
Il secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c., oltre agli artt. 132, comma 2 n. 4) c.p.c. e 111, comma 6 Cost., con riferimento all’art. 360, comma 1 n. 4) c.p.c., per avere il Giudice di appello deciso la causa dando al rapporto controverso una diversa qualificazione giuridica, che invece non era consentita in difetto di una espressa sollecitazione da parte di chi vi abbia interesse.
Il terzo motivo deduce la violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., oltre agli artt. 132, comma 2 n. 4) c.p.c. e 111, comma 6 Cost., con riferimento all’art. 360, comma 1 n. 4) c.p.c., per non avere la Corte distrettuale tenuto conto che era stato il Tribunale, in via incidentale, ad avere teorizzato la esistenza di un comodato, ma in un’ottica diversa da quella propugnata dal Giudice del gravame. Il Giudice di prime cure aveva teorizzato il possesso da parte della comproprietaria CCCCC dell’area de qua, possesso che si poneva quale presupposto per la configurazione della negotiorum gestio e quindi sancire la legittimità dell’operato della CCCCC nello stipulare il contratto di locazione anche in relazione a siffatto spazio. La discrasia che ha portato la Corte di merito ad affermare che il Condominio avrebbe dovuto fin dall’atto introduttivo di primo grado lamentare la violazione della norma di cui all’art. 1804 c.c., chiedendo l’immediata restituzione della cosa, oltre al risarcimento del danno, ipotizzando, dunque, una non corretta causa petendi, pur riconoscendo che il Condominio avrebbe potuto richiedere l’immediata restituzione della cosa, oltre al risarcimento, istanza che peraltro aveva già formulato attraverso il ricorso ex art. 702 bis c.p.c., inserito quale primo atto del fascicolo di primo grado. 
Il quarto motivo lamenta la violazione degli artt. 2028, 1102, 1804 e 1810 c.c., con riferimento all’art. 360, comma 1 n. 3) c.p.c., per avere il Tribunale ritenuto che la locazione dell’area comune fosse da riferire a fattispecie di gestione di affare, così consentendo alla CCCCC di sostituirsi legittimamente all’inerte Condominio nel precipuo interesse dello stesso, senza tenere conto che trattandosi di bene comune, vertendosi in ambito condominiale, non poteva esserci una destinazione diversa che quella al bene connaturata, ossia alle esigenze della collettività condominiale.
Il quinto mezzo denuncia la violazione degli artt. 111, comma 6 Cost., 112 e 132, comma 2 n. 4 c.p.c., con riferimento all’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., per essere stata esclusa dal Tribunale il risarcimento dal momento che mancava il presupposto della “illegittimità della occupazione del bene comune”, e ciò in contrasto insanabile con le argomentazioni per la reiezione della domanda nei confronti della CCCCC, laddove aveva fatto “salvo il diritto del Condominio al risarcimento dei danni verso il condomino-locatore ove la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi della comunione, …nonché la possibilità di azionare la tutela risarcitoria contrattuale per inadempimento agli obblighi di cui agli artt. 1804, c. 2 e 1810 c.c. in materia di comodato”. In tale modo – ad avviso del ricorrente – sarebbero state poste le condizioni per l’attivazione di un nuovo giudizio contro la CCCCC per far valere quegli inadempimenti.
I primi tre motivi di ricorso, con i quali viene censurata l’ordinanza pronunciata ai sensi degli artt. 348 bis e ter c.p.c., vanno esaminati congiuntamente, giacchè attengono, da diverse angolazioni, ai profili di nullità del provvedimento, che l’istante assume per essere stata confermata la decisione del primo giudice sulla base di un diverso percorso argomentativo.
Ciò premesso, le censure sono inammissibili.
L’ordinanza emessa dalla Corte di appello di Torino contiene una decisione prognostica sfavorevole dell’accoglimento della impugnazione proposta dal Condominio e viene impugnata con ricorso per cassazione deducendo vizi di legittimità.
Invero la Corte di legittimità ha confermato l’orientamento secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione, con il quale si contesti un “error in judicando”, contro l’ordinanza ex artt. 348 bis e ter c.p.c., motivata con la formulazione del giudizio prognostico di manifesta infondatezza nel merito dell’appello, per il solo fatto che essa, pur condividendo le ragioni della decisione appellata, contenga anche proprie argomentazioni, diverse da quelle prese in considerazione dal giudice di primo grado, perché tale possibilità è consentita dall’art. 348 ter, quarto comma, c.p.c., che permette, in questo caso, l’impugnazione della sentenza di primo grado per vizio di motivazione, facoltà esclusa qualora le ragioni delle decisioni di primo e secondo grado siano identiche quanto al giudizio di fatto (Cass. n. 13835 del 2019).
Del resto, l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’impugnazione per manifesta infondatezza nel merito non è impugnabile con ricorso per cassazione, neanche ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., a meno che il provvedimento non sia censurato, per error in procedendo, nei casi in cui il relativo modello procedimentale sia stato utilizzato al di fuori delle ipotesi consentite dalla legge (da ultimo, Cass. 26 settembre 2018 n. 23151, ove il richiamo a Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2016 n. 1914): ciò che l’istante nemmeno deduce sia avvenuto.
Va rammentato, al riguardo, proprio l’insegnamento delle Sezioni Unite, secondo cui «[a]vuto riguardo ai presupposti del ricorso per violazione di legge previsto dall’art. 111 Cost., comma 7, deve […] escludersi che l’ordinanza in esame sia impugnabile con censure riguardanti il ‘merito’ della controversia, giusta la previsione di rícorribilità per cassazione della sentenza di primo grado e quindi la non definitività, sotto questo profilo, dell’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.» e secondo cui, ancora, le stesse problematiche concernenti la motivazione dell’ordinanza impugnata possono essere censurate, in sede di legittimità, non con la denuncia di un error in iudicando, ma solo «attraverso la denuncia di violazione della legge processuale che sancisce l’obbligo di motivazione» (in termini, Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2016 n. 1914 cit., in motivazione).
Questa stessa Corte è venuta per la verità affermando che ove l’ordinanza di inammissibilità del gravame, pronunciata ex artt. 348 bis e 348 ter c.p.c, indichi ulteriori rationes decidendi, del tutto assenti nella sentenza di primo grado, con le quali il giudice di appello abbia corroborato la propria decisione, questa risulterà autonomamente impugnabile nella parte in cui ha aggiunto e integrato la motivazione del giudice di prime cure (Cass. 9 marzo 2018 n. 5655; sulla stessa linea, nel senso dell’impugnabilità per cassazione dell’ordinanza con cui il giudice del gravame rilevi l’inesattezza della motivazione della decisione di primo grado e sostituisca ad essa una diversa argomentazione in punto di fatto o di diritto: Cass. 23 giugno 2017 n. 15644; Cass. 8 febbraio 2018 n. 3023; Cass. 12 ottobre 2018 n. 25366).
E’ tuttavia da escludere che nel caso in esame possa avere ingresso l’impugnazione per cassazione dell’ordinanza ex artt. 348 bis e 348 ter c.p.c. Tale ordinanza ha l’effetto di stabilizzare la sentenza di primo grado (idonea a passare in giudicato in mancanza di impugnazione) attraverso una prognosi sull’inaccoglibilità del gravame. La prognosi non cessa di essere tale — e il provvedimento che ne dà conto non si colloca per ciò solo al di fuori dal modello normativo suo proprio — ove si basi su argomentazioni estranee alla pronuncia del giudice di prima istanza: una estensione in tale direzione dell’apparato motivazionale dell’ordinanza sarà anzi del tutto naturale ove il gravame si fondi su deduzioni, non specificamente esaminate dal giudice di prima istanza, ma articolate dall’appellante, che il giudice di secondo grado reputi manifestamente infondate (atte cioè ad escludere che l’impugnazione presenti, anche con riguardo ad esse, «una ragionevole probabilità di essere accolta»). Tale esito è coerente col sistema: infatti, il quarto comma dell’art. 348 ter c.p.c. preclude possa farsi valere il motivo di cui all’art. 360 n. 5, c.p.c. con riguardo all’ipotesi in cui l’ordinanza di inammissibilità si fondi sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, sicché è lo stesso legislatore a riconoscere, implicitamente, che l’ordinanza pronunciata dal giudice di appello possa non basarsi, puramente e semplicemente, sugli esiti coincidenti, in primo e in secondo grado, della risoluzione della medesima quaestio facti: in quest’ultima ipotesi è infatti precluso dedurre col ricorso per cassazione l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti; nelle altre — tra cui è da ricomprendere il caso in cui la motivazione del giudice di appello non investa quella questione, ma altri temi — la censura in discorso è ammessa (sempre che si controverta, come è ovvio, dell’omesso esame di cui al cit. n. 5). La possibilità che la pronuncia di secondo grado possa basare il giudizio prognostico su «ragioni» diverse da quelle prese in considerazione dal giudice di prima istanza è in altri termini presupposta dall’art. 348 ter (che regolamenta diversamente i casi in cui, con riferimento al giudizio di fatto, quelle «ragioni» siano o meno identiche). 
Pertanto, non è impugnabile per cassazione l’ordinanza ex artt. 348 bis e 348 ter — la quale si attesti sulla formulazione del giudizio meramente prognostico circa il rigetto nel merito dell’appello — per il sol fatto che essa contenga proprie argomentazioni, estranee alla pronuncia di primo grado.
In ogni caso nel ricorso si indica che la stessa sentenza di prime cure (v. pag. 12 riga n. 12 della sentenza) aveva ravvisato una situazione di fatto da ricondurre al comodato, seppure in un’ottica diversa (pag. 23, secondo capoverso, del ricorso qui scrutinato), e che l’ordinanza della Corte di appello ha ritenuto mancante la domanda di immediata restituzione del bene e di risarcimento (pag. 24, secondo capoverso): si tratta della medesima “ratio decidendi”, diversamente specificata, con l’aggiunta, in seconde cure, del richiamo alla nomofilachia quanto alla qualificazione del rapporto e delle conseguenze connesse.
E’ al contempo opportuno osservare che le censure sarebbero state comunque inammissibili, in quanto formulate nel senso palesemente diretto a una rilettura dell’interpretazione fornita delle delibere condominiali, negando il potere del giudice di appello di qualificazione dell’azione.
Del pari è inammissibile il quarto mezzo formulato, in via subordinata, avverso la sentenza del giudice di prime cure non cogliendo la ratio della decisione sul punto.
L’accertamento espresso nella sentenza impugnata, secondo cui la ricostruzione della fattispecie relativa al contratto di locazione di bene comune, con accordo stipulato da un solo comproprietario, configurerebbe – secondo la più recente giurisprudenza – ipotesi di gestione di affari altrui, non integra una pronuncia sulla qualificazione del rapporto intercorso fra il Condominio e la CCCCC quanto alla pensilina, che è stato incontrovertibilmente riferito al comodato, bensì alla ben diversa correlazione fra i comproprietari a fronte di un contratto validamente stipulato con il terzo. Il giudice di merito, infatti, ad abundatiam, afferma che “i comproprietari non locatori non sono parti del contratto e, in assenza di opposizione antecedente alla stipula ex art. 2031, comma 2 c.c., sono tenuti all’adempimento delle obbligazioni derivanti dallo stesso”. Viene, quindi, censurata un’affermazione che non costituisce ratio decidendi ma che il Giudice unico fa solo per rafforzare la statuizione di mancanza dei presupposti per ottenere il risarcimento dei danni per recuperare la mancata utilizzazione della cosa comune ai contitolari.
Pure inammissibile è la quinta censura perché l’assunta violazione di legge si basa e presuppone una diversa valutazione e ricostruzione delle risultanze di causa (quanto alla valutazione della insussistenza di un danno da “illegittima occupazione del bene comune”), censurabile – e solo entro certi limiti – sotto il profilo del vizio di motivazione, secondo il paradigma previsto per la formulazione di detto motivo e nel rispetto dell’art. 54, co. 1, lett. b) , d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla I. 7 agosto 2012, n. 134, che ha nuovamente riformato il testo dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.
Va qui ribadito che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.); viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge ed impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero, erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (in tal senso essenzialmente cfr. Cass. 12 ottobre 2017 n. 24054).
Ora, nel caso in esame, il Tribunale si è limitato ad accertare che, salvo il diritto del Condominio al risarcimento dei danni verso il condomino-locatore ove la sua attività fosse risultata pregiudizievole agli interessi della comunione, con possibilità di azionare la tutela risarcitoria contrattuale per inadempimenti agli obblighi dettati in materia di comodato, circostanza in ordine alla quale non risultava essere stata formulata una apposita domanda per essere stato il risarcimento del danno richiesto nella prospettazione di illegittimità dell’occupazione stessa. Si tratta, come è di tutta evidenza, di una valutazione di merito che, non presentando alcun vizio logico e/o giuridico, non è suscettibile di essere riconsiderata nel giudizio di legittimità non sussistendo alcun insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione: vizi che non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte.
In conclusione, il ricorso principale va dichiarato inammissibile e ciò comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato della YYYYY, con cui si denuncia l’improponibilità dell’appello per violazione dell’art. 329 c.p.c. e si insiste nella domanda in manleva nei confronti della CCCCC per responsabilità contrattuale ex artt. 1575 e 1585 c.c.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore somma pari al contributo unificato per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale ed assorbito il ricorso incidentale condizionato;
condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità che liquida in complessivi euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge per la controricorrente CCCCC e in complessivi euro 3.900,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge in favore della YYYYY
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qualer D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2022

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CASSAZIONE CIVILE SENTENZA N. 12642/2023 DEL 10 MAGGIO 2023

Decreto ingiuntivo – ritiro fascicolo senza restituzione -partecipazione udienza difensore senza delega – Art. 1137 c.-c. – Opposizione decreto ingiuntivo – Art. 63 disp. att. c.c.

Del resto, come affermato dal massimo consesso nomofilattico (Cass. Sez. Un., n. 289 del 1999), la delega conferita dal difensore ad un collega perché lo sostituisca in udienza rappresenta senza dubbio un atto tipico di attività professionale indirizzato all’espletamento dell’incarico ricevuto dal cliente, essendo evidente che il sostituto il quale interviene nel processo in virtù di nient’altro che di detta delega, cioè senza aver ricevuto direttamente alcun mandato dalla parte, non opera per sé ma solo quale longa manus del sostituito e che, quindi, l’attività processuale da lui svolta è riconducibile soltanto all’esercizio professionale di quest’ultimo ed è come se fosse svolta dallo stesso.
Le determinazioni prese dai condomini in assemblea sono da considerare, a tutti gli effetti, come veri e propri atti negoziali, ovvero come coacervo di dichiarazioni individuali, espressione in quanto tale non della volontà dell’assemblea, bensì della maggioranza in essa formatasi, e quindi atto dell’organizzazione condominiale. La delibera costituisce, in sostanza, un momento della gestione condominiale, e in tal senso il problema della sua validità o invalidità è correlato alle ripercussioni che essa ha sulla medesima gestione. Oggetto del giudizio di validità ex art. 1137 c.c. è perciò il valore organizzativo della deliberazione, dovendosi accertare se quel valore merita di essere conservato o va, piuttosto, eliminato con la sentenza di annullamento o con la declaratoria di nullità. La valenza organizzativa emergente dal testo della delibera dell’assemblea costituisce, allora, il coefficiente determinante nella scelta tra la sanzione invalidante e la contrapposta esigenza di stabilità delle deliberazioni in seno alla compagine condominiale e di certezza dei rapporti giuridici instaurati per decisione dell’organo collegiale.
Come da ultimo ulteriormente precisato in Cass. Sez. Unite, 14 aprile 2021, n. 9839, avendosi riguardo a giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest’ultima sia dedotta in via d’azione, mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione, ai sensi dell’art. 1137, comma 2, c.c., e non in via di eccezione.
Nel caso in esame, la Corte di appello di Milano, premesso che il decreto ingiuntivo è stato emesso sulla base delle spese ordinarie e straordinarie indicate nel consuntivo 2012/2013, nel preventivo 2013/2014 e nei relativi stati di riparto, oltre che nel conto di gestione relativo alla nuova centrale termica e annesso riparto, conti approvati dalle delibere condominiali dell’11.03.2013 e del 16.12.2013, atti tutti regolarmente depositati e posti a fondamento del procedimento monitorio ex art. 63 disp. att. c.c., ha esplicitato che esse non sono state impugnate dalla YYYYY (v. pag. 4, ultima parte penultimo capoverso).


S E N T E N Z A

sul ricorso Omissis proposto da:
YYYYY, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avvocato Omissis del foro di Omissis ed elettivamente domiciliata in Omissis, presso lo studio dell’avvocato Omissis;
– ricorrente –
contro
Condominio XXXXX, in persona dell’Amministratore pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Omissis e dal Omissis , entrambi del foro di Milano, come da procura speciale in calce al controricorso ed elettivamente domiciliato in Omissis presso lo studio dell’avvocato Omissis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5079/2017 della Corte di appello di Milano, pubblicata il 4 dicembre 2017;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 7 dicembre 2022 dal Consigliere relatore Dott.ssa Omissis;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. Omissis, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Condominio XXXXX chiedeva ed otteneva dal Tribunale di Milano decreto ingiuntivo n. 20716/2014 per euro 9.479,90 emesso nei confronti della condomina YYYYY per oneri condominiali non corrisposti.
L’intimata proponeva opposizione avverso l’ingiunzione, dinanzi al medesimo Tribunale, che veniva respinta, con sentenza n. 7625 del 2016 risultando provate le voci di spesa dalla documentazione allegata al monitorio, trattandosi di spese condominiali, ordinarie e straordinarie, indicate nel consuntivo 2012-2013, nel preventivo 2013-2014 e nei relativi stati di riparto nonché nel conto preventivo relativo alla nuova centrale termica e dai verbali delle assemblee condominiali tenutesi l’11.03.2013 e il 16.12.2013, dove erano state approvate, rispettivamente, le spese straordinarie per la riqualificazione della centrale termica e per essere il verbale dell’adunanza condominiale redatto nel registro dei verbali che ai sensi dell’art. 2375 c.c. rimaneva depositato presso l’ufficio, inviate le copie alle parti, non provata dalla condomina la difformità della copia all’originale.
In virtù di rituale impugnazione interposta dalla YYYYY, la Corte di appello di Milano, nella resistenza del Condominio appellato, rigettava l’appello e per l’effetto confermava la decisione gravata.
A sostegno della decisione adottata il giudice dell’impugnazione rilevava che correttamente il giudice di prime cure aveva esaminato gli atti contenuti nel fascicolo di parte appellata, che seppure depositato soltanto alcuni giorni prima dell’udienza fissata per la discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c. e comunque scaduto il termine assegnato per il deposito, si trattava di un termine meramente ordinatorio, non trovando nella specie applicazione l’art. 169 c.p.c., ma la libertà delle forme di trattazione. Aggiungeva che il difensore, ai sensi dell’art. 14 della disciplina dell’ordinamento forense, poteva farsi sostituire in udienza da altro avvocato anche per delega verbale.
Nel merito, la documentazione allegata costituiva prova del credito azionato ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c.; del resto la delibera approvata dall’assemblea condominiale, contenente le spese ed il loro riparto e non impugnata, costituiva titolo di credito e di per sé prova dell’esistenza di detto credito che legittimava la concessione del decreto ingiuntivo. Dagli stati di riparto risultavano, altresì, i saldi passivi della condomina per gli esercizi precedenti.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso l’originaria opponente, sulla base di sette motivi, cui ha resistito con controricorso il Condominio.
Posto in discussione il ricorso per la decisione allo stato degli atti all’udienza pubblica del 7 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020, in prossimità della quale è stata depositata dal sostituto procuratore generale, dott. Omissis, memoria con la quale ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Per un’ordinata trattazione occorre esaminare preliminarmente l’eccezione di inammissibilità dedotta nel controricorso per violazione dell’art. 366, comma 1 n. 3 c.p.c.
L’eccezione è infondata. Come statuito da questa Corte, “il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.” (Cass., Sez. Un., n. 37552 del 2021). Si è anche precisato che non è causa di inammissibilità l’inserimento nel corpo del ricorso di copie fotostatiche o scannerizzate di atti relativi al giudizio di merito, qualora la riproduzione integrale di essi sia preceduta da una chiara sintesi dei punti rilevanti per la risoluzione della questione dedotta (v. Cass., Sez. Un., n. 4324 del 2014).
Il ricorso in esame contiene una adeguata esposizione dei fatti di causa e delle questioni giuridiche sollevate e risolte in primo e in secondo grado; comprende, inoltre, ampie argomentazioni sui dedotti vizi di violazione delle norme specificamente invocate. Si sottrae pertanto alle censure mosse ai sensi del citato art. 366 c.p.c.
Venendo al merito, con il primo motivo la condomina lamenta la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., degli artt. 169 e 281 sexies c.p.c., dell’art. 77 disp. att. c.c., oltre ad asserita violazione della legge per mancato rispetto del contraddittorio e violazione dell’art. 111 Cost. per avere la Corte di merito ritenuta logica e corretta la motivazione quanto alla non perentorietà del termine per il deposito del fascicolo di parte in vista dell’udienza ex art. 281 sexies c.p.c.
La censura è infondata.
Lo schema procedimentale che consente la decisione della controversia ex art. 281 sexies c.p.c., ora anche in appello a seguito dell’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 352 c.p.c. ad opera dell’art. 27, comma 1 lett. d) della legge n. 183 del 2011 (norma già vigente alla data in cui è intervenuta la decisione gravata), non contempla come obbligatorio un termine per il deposito del fascicolo di parte ovvero il preventivo scambio di scritti conclusionali, come invece previsto nel diverso modulo procedimentale di cui ai precedenti commi dell’art. 352 c.p.c.
Del resto, i moduli decisori sono quelli previsti dalla legge e non contempla elementi spuri, come la perentorietà del termine entro il quale, a norma dell’art. 169, comma 2 c.p.c., deve avvenire il deposito del fascicolo di parte ritirato al momento della precisazione delle conclusioni, che va riferita solo alla fase decisoria di primo grado e non può in alcun modo operare una volta che il procedimento si trovi in grado di appello, per cui la sua inosservanza produce effetti limitati alla decisione del giudice di prime cure, sicché il deposito del fascicolo nel giudizio di appello non costituisce introduzione di nuove prove documentali, sempre che i documenti contenuti nel fascicolo siano stati prodotti, nel giudizio di primo grado, nell’osservanza delle preclusioni probatorie risultanti dagli artt.165 e 166 c.p.c. (Cass. n. 28462 del 2013; Cass. 29309 del 2017).
Ne consegue che il richiamo all’art 169 c.p.c. deve ritenersi improprio, anche perché previsto per la trattazione scritta, diversamente dal caso in esame in cui si è in presenza di trattazione orale.
In tal senso valga il richiamo a quanto affermato da Cass. n. 26030 del 2014 che ha statuito che nel caso di mancata restituzione del fascicolo di parte, ritualmente ritirato, entro il termine previsto dall’art. 190 c.p.c., il giudice di primo grado deve decidere la causa prescindendo dai documenti in esso contenuti, ma la parte ha la facoltà, alla stregua dell’art. 345 c.p.c., di produrre nuovamente in grado di appello i documenti non esaminati nella decisione appellata, i quali, se ed in quanto ritualmente prodotti in primo grado, non sono qualificabili come “nuovi”.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 14, comma 4 legge n. 247 del 2012 – in riferimento all’art. 360, comma 1 n. 3 e n. 4 c.p.c. – per avere partecipato alla discussione della controversia per il Condominio un legale privo di delega. Nella sostanza viene denunziata l’omessa menzione nel verbale di udienza del 16.06.2016 della presenza dell’avv. Omissis quale sostituta in forza di delega verbale dell’avv. Omissis.
Anche il secondo mezzo è privo di rilievo.
Come dedotto dalla stessa ricorrente, il verbale di udienza indica soltanto che sono presenti le parti, senza ulteriori specificazioni circa la qualità dei rispettivi difensori o di semplici sostituti.
Orbene, l’eventuale abuso compiuto dall’avv. Omissis non è invocabile dalla ricorrente a sostegno della denunciata nullità della sentenza, atteso che anche l’eventuale difetto di legittimazione del sostituto, ove privo di delega, è deducibile soltanto dalla parte il cui procuratore sia stato irregolarmente sostituito (cfr, Cass. n. 12597 del 2001; Cass. n. 1574 del 1996; Cass. n. 12784 del 1995).
Del resto, come affermato dal massimo consesso nomofilattico (Cass. Sez. Un., n. 289 del 1999), la delega conferita dal difensore ad un collega perché lo sostituisca in udienza rappresenta senza dubbio un atto tipico di attività professionale indirizzato all’espletamento dell’incarico ricevuto dal cliente, essendo evidente che il sostituto il quale interviene nel processo in virtù di nient’altro che di detta delega, cioè senza aver ricevuto direttamente alcun mandato dalla parte, non opera per sé ma solo quale longa manus del sostituito e che, quindi, l’attività processuale da lui svolta è riconducibile soltanto all’esercizio professionale di quest’ultimo ed è come se fosse svolta dallo stesso.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la carenza dei presupposti per l’emissione del decreto in mancanza di prova scritta – difetto di firma dei verbali prodotti e nullità delle delibere, con violazione degli artt. 633 e 634 c.p.c. e dell’art. 1421 c.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c. non potendo essere la prova scritta del presunto credito da parte del Condominio costituita da copia del verbale dichiarata conforme all’originale dall’amministratore non avendo questi potere certificativo al riguardo.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia l’omessa motivazione sull’accertamento della reale posizione debitoria della YYYYY ed insussistenza della prova della posizione debitoria della medesima, con violazione dell’art. 1135 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. anche per insufficiente motivazione.
Le due censure – da trattare unitariamente per la evidente connessione argomentativa che le avvince – sono in parte infondate e in parte inammissibili.
Le determinazioni prese dai condomini in assemblea sono da considerare, a tutti gli effetti, come veri e propri atti negoziali, ovvero come coacervo di dichiarazioni individuali, espressione in quanto tale non della volontà dell’assemblea, bensì della maggioranza in essa formatasi, e quindi atto dell’organizzazione condominiale. La delibera costituisce, in sostanza, un momento della gestione condominiale, e in tal senso il problema della sua validità o invalidità è correlato alle ripercussioni che essa ha sulla medesima gestione. Oggetto del giudizio di validità ex art. 1137 c.c. è perciò il valore organizzativo della deliberazione, dovendosi accertare se quel valore merita di essere conservato o va, piuttosto, eliminato con la sentenza di annullamento o con la declaratoria di nullità. La valenza organizzativa emergente dal testo della delibera dell’assemblea costituisce, allora, il coefficiente determinante nella scelta tra la sanzione invalidante e la contrapposta esigenza di stabilità delle deliberazioni in seno alla compagine condominiale e di certezza dei rapporti giuridici instaurati per decisione dell’organo collegiale.
Come da ultimo ulteriormente precisato in Cass. Sez. Unite, 14 aprile 2021, n. 9839, avendosi riguardo a giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest’ultima sia dedotta in via d’azione, mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione, ai sensi dell’art. 1137, comma 2, c.c., e non in via di eccezione.
Nel caso in esame, la Corte di appello di Milano, premesso che il decreto ingiuntivo è stato emesso sulla base delle spese ordinarie e straordinarie indicate nel consuntivo 2012/2013, nel preventivo 2013/2014 e nei relativi stati di riparto, oltre che nel conto di gestione relativo alla nuova centrale termica e annesso riparto, conti approvati dalle delibere condominiali dell’11.03.2013 e del 16.12.2013, atti tutti regolarmente depositati e posti a fondamento del procedimento monitorio ex art. 63 disp. att. c.c., ha esplicitato che esse non sono state impugnate dalla YYYYY (v. pag. 4, ultima parte penultimo capoverso).

La Corte distrettuale ha, dunque, fatto buon governo dei principi sopra enunciati e nessuna può essere mossa al riguardo.
Lo stesso art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – denunciato con il quarto mezzo – concerne, comunque, il vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che il difetto di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora i fatti storici, rilevanti in causa, siano stati comunque presi in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. Un., n. 8053 del 2014).
I due motivi di ricorso allegano, piuttosto, dati di fatto (sovente senza precisare il “come” e il “quando” fossero stati tempestivamente dedotti già nel giudizio di primo, prima della maturazione delle preclusioni, senza così rispettare la previsione dell’art. 366, comma 1 n. 6, c.p.c.), al malcelato fine di sollecitare una rivalutazione delle risultanze probatorie nel senso più favorevole alle tesi difensive del ricorrente, il che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, attività non consentita in sede di legittimità.
Con il quinto motivo la condomina deduce l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia relativo alla mancata ammissione della c.t.u. richiesta dall’appellante, con violazione degli artt. 191 e 61 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. per non essere comprensibile come nell’arco di poco più di un anno e mezzo si sia raggiunta la somma ingiunta stante la modesta dimensione degli immobili, complessivamente di circa 100 mq.
Il mezzo è inammissibile perché la sentenza impugnata ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte di legittimità.
Come più volte ribadito da questa Corte, la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, con la conseguenza che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (cfr, ex plurimis, Cass. n. 10373 del 2019; Cass. n. 30218 del 2017).
Con il sesto motivo la ricorrente, quanto alle spese del giudizio, denuncia la mancata partecipazione alla procedura di mediazione dell’Amministratore del Condominio, in particolare non avrebbe neanche effettuato la messa in mora della stessa ex art. 1229 c.c.
Il motivo è infondato, in quanto dalle stesse circostanze dedotte nella censura risulta che la mediazione fra le parti vi è stata (v. pag. 19 del ricorso), ma non è andata a buon fine per non avere il rappresentante del Condominio transatto la lite per mancata accettazione del pagamento rateizzato del credito preteso, come proposto dalla condomina. In tal senso l’esito della mediazione può incidere – come asserito dalla stessa ricorrente – solo sulla liquidazione delle spese di lite.
Con il settimo motivo la ricorrente assume che qualificando la sentenza di primo grado come dichiarativa, doveva essere ritenuta provvisoriamente esecutiva solo con riferimento alla statuizione condannatoria del capo relativo alle spese di lite, mentre gli effetti costituitivi e dichiarativi divenivano tali solo con il passaggio in giudicato, ragione per la quale non poteva essere avviata azione esecutiva se non sulla base del minor importo, contestato, relativo alle spese di giudizio.
Anche siffatta censura non può trovare ingresso.
Premesso che l’obbligo di ciascun condomino di contribuire alle spese necessarie per la conservazione delle parti comuni e per l’esercizio dei servizi condominiali deriva dalla titolarità del diritto reale sullo immobile e integra un’obbligazione “propter rem” preesistente all’approvazione, da parte dell’assemblea, dello stato di ripartizione il quale, perciò, non ha valore costitutivo ma soltanto dichiarativo del relativo credito del condominio in rapporto alla quota di contribuzione dovuta dal singolo partecipante alla comunione.
Ne consegue che, come già ritenuto da questa Corte (Cass. n. 24171 del 2020) il giudice dell’impugnazione, solo ove riformi (per ragioni di rito o di merito) la decisione gravata, ha il potere, ma non l’obbligo, purché ne ricorrano i presupposti e non siano necessari accertamenti in fatto che comportino un ampliamento del “thema decidendum”, di pronunciarsi d’ufficio sui conseguenti effetti restitutori e/o ripristinatori poiché – come si evince dagli artt. 389 e 402 c.p.c. – tali effetti non discendono “ipso facto” dalla sentenza riformata o cassata, con la conseguenza che la parte interessata può proporre la relativa domanda in sede di impugnazione ovvero instaurando un autonomo giudizio.
Né la ricorrente chiarisce la ragione di siffatta doglianza, non avendo neanche dedotto l’introduzione di un giudizio di esecuzione da parte del Condominio, che comunque troverebbe il suo fondamento nella presente pronuncia. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Ne consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalla controricorrente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente delle spese di legittimità che liquida in complessivi euro 2.600,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qualer D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2022.

CategoriesSentenze Civili

CASSAZIONE CIVILE SENTENZA N. 12644/2023 DEL 10 MAGGIO 2023

Art. 1127 c.c. – Sopraelevazione  – Decoro Architettonico 

Occorre premettere che la Corte di merito ha fatto corretta applicazione del principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui, il giudicato formatosi sulla domanda possessoria, quale quella su cui ha pronunciato il Pretore di Roma, è privo di efficacia nel giudizio petitorio come quello odierno, avente a oggetto l’accertamento del diritto delle ricorrenti a mantenere sulla terrazza di copertura del fabbricato condominiale le costruzioni in contestazione, in quanto il possesso utile alla realizzazione delle stesse deve avere requisiti che non vengono in rilievo nei giudizi possessori. Nel giudizio possessorio l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso, perché è finalizzato a dare tutela a una mera situazione di fatto avente i caratteri esteriori della proprietà o di un altro diritto reale, sicchè l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso (Cass. 16 aprile 2019 n. 10590; Cass. 5 ottobre 2009 n. 21233).
E’ noto come l’art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.
L’aspetto architettonico, cui si riferisce l’art. 1127, comma 3 c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122- bis c.c., dovendo l’intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore. Il giudizio relativo all’impatto della sopraelevazione sull’aspetto architettonico dell’edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile condominiale, e verificando altresì l’esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato (cfr. Cass. 28 giugno 2017 n. 16258; Cass. 15 novembre 2016 n. 23256; Cass. 24 aprile 2013 n. 10048; Cass. 7 febbraio 2008 n. 2865; Cass. 22 gennaio 2004 n. 1025; Cass. 7 febbraio 1998 n. 1297; Cass. 27 aprile 1989 n. 1947).
D’altro canto, questa Corte ha anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l’una dall’altra, sicché anche l’intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. 23 luglio 2020 n. 15675; Cass. 12 settembre 2018 n. 22156; Cass. 25 agosto 2016 n. 17350).
Ora, perché rilevi la tutela dell’aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell’art. 1127, comma 3 c.c., e non già dell’art. 1120, comma 2 c.c., erroneamente indicato dalla Corte distrettuale, che in tal senso va corretta, non occorre neppure che l’edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia.
Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento.


S E N T E N Z A

sul ricorso Omissis proposto da:
YYYYY, rappresentate e difese, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avvocato Omissis ed elettivamente domiciliate in Omissis, presso lo studio del difensore;
– ricorrenti –
contro
EEEEE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Omissis come da procura speciale notarile dott. Omissis rep. n. Omissis del 18.02.2021 ed elettivamente domiciliata in Omissis, presso lo studio del difensore;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7463/2017 della Corte di appello di Roma, pubblicata il 27 novembre 2017 e notificata in data 22 dicembre 2017;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 7 dicembre 2022 dal Consigliere relatore Dott.ssa Omissis;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Omissis, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
sentito l’avvocato Omissis, per parte ricorrente e l’avvocato Omissis, per parte resistente.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 23 novembre 2006 la EEEEE nella qualità di proprietaria dell’intero stabile sito in Omissis, fatta eccezione dell’appartamento sito al piano terzo, int. 7, evocava – dinanzi al Tribunale di Roma – YYYYY proprietarie della predetta abitazione, esponendo che le stesse avevano realizzato sulla terrazza di copertura del fabbricato un manufatto che occupava una superficie superiore ai 20 mq di proprietà esclusiva delle medesime, così invadendo parte del terrazzo comune in violazione del diritto di pari uso degli altri condomini ex art. 1102 c.c., oltre ad essere in contrasto rispetto alle distanze legali e creando una servitù sul bene comune;
deturpava, altresì, il decoro architettonico del fabbricato, per essere stata la veranda realizzata in uno stile diverso da quello della costruzione originaria, costituendo anche una minaccia per la stabilità dello stabile; infine, ostruiva il normale deflusso delle acque meteoriche e la pulizia del terrazzo, impedendo la visuale ad altro edificio di proprietà della stessa società attrice;
chiedeva, pertanto, in via principale, la condanna delle convenute alla eliminazione del manufatto in muratura, in ferro e vetro, costruito sul terrazzo di copertura del fabbricato; in via subordinata, la loro condanna alla riduzione delle dimensioni del manufatto in modo che lo stesso non fuoriuscisse dalla proprietà di terrazza esclusiva delle convenute, pari a mq. 20 su 100;
ovvero la condanna delle stesse ad arretrare il manufatto in questione e, in ogni caso, al risarcimento dei danni.
Instaurato il contraddittorio, resistevano la YYYYY, eccepito il difetto di legittimazione passiva dalla seconda per essere solo stata per un breve periodo comodataria del bene, mentre la prima assumeva, nel merito, di avere da tempo immemore (ai fini dell’usucapione) utilizzato detta porzione di terrazzo a seguito dei lavori eseguiti dalla stessa società attrice nell’anno 1973, oltre a svolgere domanda riconvenzionale per avere l’attrice installato sul terrazzo condominiale un’apparecchiatura motocondensante e per essersi appropriata di una porzione del terrazzo comune accorpandola all’appartamento int. 12 di proprietà della società, per cui chiedeva il rilascio della porzione e la rimozione di entrambe le opere.
Il giudice adito, con sentenza n. 14348 del 2012, accoglieva le domande attoree e per l’effetto condannava la YYYYY alla rimozione del manufatto realizzato sul terrazzo di copertura, oltre al risarcimento dei danni liquidati in euro 5.000,00 oltre accessori, rigettata la riconvenzionale.
In virtù di rituale impugnazione interposta dalla YYYYY, la Corte di appello di Roma, nella resistenza della società appellata, rigettava l’appello e per l’effetto confermava la decisione gravata.
A sostegno della decisione adottata il giudice dell’impugnazione, condividendo le affermazioni del giudice di prime cure, rilevava che il manufatto oggetto di causa era stato realizzato con materiali e colori che lo rendevano immediatamente evidente come corpo estraneo alla costruzione originale, rendendolo visibile anche dalla viabilità circostante in considerazione peraltro della volumetria; con la conseguenza che l’unico rimedio possibile appariva la rimozione del manufatto. Né le appellanti avevano fornito prova rigorosa che la YYYYY e i suoi danti causa, Omissis, avevano utilizzato in modo pieno ed esclusivo la porzione di terrazza di proprietà condominiale, area sulla quale peraltro fino agli anni 1971-1973 erano stati posti la cabina idrica e le fontane.
Trovando applicazione nella specie l’art. 1102, comma 2 c.c., il comproprietario poteva usucapire la res communis solo dimostrando di avere goduto del bene in modo inconciliabile con la possibilità del godimento altrui, per cui doveva essere ritenuta irrilevante l’eccezione di decadenza formulata dall’appellata ma non riproposta in sede di conclusioni nell’atto di appello, anche se in verità ribadita come doglianza in modo esplicito nel corpo dell’atto.
Pure infondato era il motivo relativo al risarcimento dei danni liquidati in via equitativa, senza alcuna prova data del danno derivato dall’alterazione del decoro architettonico, ricomprendendo comunque l’accertata occupazione sine titulo di porzione comune della terrazza in via esclusiva.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello capitolina hanno proposto ricorso le originarie convenute, sulla base di otto motivi, cui ha resistito la EEEEE con controricorso.
Posto in discussione il ricorso per la decisione allo stato degli atti all’udienza pubblica del 7 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020, in prossimità della quale è stata depositata dal sostituto procuratore generale, dott. Omissis, memoria con la quale ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso, parte ricorrente ha formulato istanza di discussione orale della controversia.
Parte ricorrente ha curato il depositato anche di memoria ex art. 378 c.p.c.

CONSIDERATO IN DIRITTO Occorre premettere per un’ordinata trattazione che la deduzione di inammissibilità dei motivi di ricorso, escluso il n. 4, formulata nel controricorso verrà esaminata nell’ambito di ciascun mezzo.
Venendo al merito, con il primo motivo la YYYYY lamenta la violazione e la falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., dell’art. 2909 c.c. in riferimento al giudicato di cui alla sentenza del Pretore di Roma n. 3491 del 27.05.1996 per non avere l’ausiliario del giudice tenuto conto di siffatto pronunciamento per un raffronto da un punto di vista tecnico e materiale del manufatto de qua pur essendo lo stesso ubicato nel medesimo luogo in cui insiste quello oggetto della controversia. È stato il giudice del gravame a desumere, secondo una propria valutazione, una diversità assoluta dei due manufatti, valorizzando un’unica frase contenuta nella relazione tecnica del c.t.u., verifica dunque non suffragata dai necessari riscontri. Peraltro, in siffatta pronuncia intervenuta in giudizio possessorio, il Pretore aveva analiticamente esaminato anche le modalità di verifica della presunta lesione del decoro architettonico concentrata sul medesimo ambiente di riferimento (edificio e terrazza), ossia con una valutazione di confronto con lo stato di quest’ultimo, sicchè non si poteva negare a priori una qualche incidenza senza una doverosa verifica, che nella specie non sarebbe stata fatta.
Il motivo è manifestamente infondato.
Occorre premettere che la Corte di merito ha fatto corretta applicazione del principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui, il giudicato formatosi sulla domanda possessoria, quale quella su cui ha pronunciato il Pretore di Roma, è privo di efficacia nel giudizio petitorio come quello odierno, avente a oggetto l’accertamento del diritto delle ricorrenti a mantenere sulla terrazza di copertura del fabbricato condominiale le costruzioni in contestazione, in quanto il possesso utile alla realizzazione delle stesse deve avere requisiti che non vengono in rilievo nei giudizi possessori. Nel giudizio possessorio l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso, perché è finalizzato a dare tutela a una mera situazione di fatto avente i caratteri esteriori della proprietà o di un altro diritto reale, sicchè l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso (Cass. 16 aprile 2019 n. 10590; Cass. 5 ottobre 2009 n. 21233).
Tanto premesso, quanto alla doglianza concernente la valutazione della relazione di consulenza da parte del giudice, osserva il Collegio che se il giudice di merito, per la soluzione di questioni di natura tecnica o scientifica, può ben fare ricorso alle conoscenze specialistiche che abbia acquisito direttamente attraverso studi o ricerche personali (Cass. 26 giugno 2007 n. 14759), a fortiori non gli può essere precluso l’esame diretto della documentazione a sua volta esaminata dal consulente, vigendo il principio judex peritus peritorum, per cui il giudice di merito può disattendere le argomentazioni tecniche svolte nella relazione dal consulente tecnico d’ufficio, e ciò sia quando le motivazioni stesse siano intimamente contraddittorie, sia quando il giudice sostituisca a esse altre argomentazioni, tratte da proprie personali cognizioni tecniche, con l’unico onere di un’adeguata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto. (Cass. 7 agosto 2014 n. 17757).
Ed è quanto è occorso nella specie in cui la Corte, nel condividere il convincimento del giudice di prime cure, che a sua volta aveva recepito le conclusioni dell’ausiliare nominato, ha evidenziato che il manufatto in contestazione altera la fisionomia generale del fabbricato sia per la scelta del colore (verde) sia per i materiali utilizzati (struttura metallica composta di pannelli e montanti di colore verde, con ampie superfici vetrate) per la sua realizzazione che “lo rendono immediatamente evidente come corpo estraneo alla costruzione originale”, tanto da renderlo “ben visibile dalla viabilità circostante ed il suo impatto visivo è legato alla tipologia e colori dei materiali scelti nonché alla sua volumetria”.
Dunque, la Corte distrettuale ha apprezzato gli elementi di giudizio raccolti dal c.t.u. e riportati nella relazione, tanto da richiamarla in più parti (v. pagine 5, 7 e 9 della perizia), ritenendoli più convincenti rispetto agli ulteriori prospettati dalle convenute/appellanti ai fini della valutazione della lesione del decoro architettonico dell’edificio.
Alla luce delle considerazioni che precedono deve rilevarsi che la Corte territoriale non si è affatto astenuta dall’effettuare una valutazione di confronto con lo stato complessivo dei luoghi, come sostenuto dalle ricorrenti, laddove deducono che non si sarebbe tenuto conto della lesione del decoro architettonico concentrata sul medesimo ambiente di riferimento, tanto da avere effettuato una comparazione anche con il manufatto realizzato dalle stesse ed esaminato nel giudizio pretorile (“struttura di metallo che sorregge una tenda” o come orditura in profilati metallici scatolari con soprastante tendone).
La Corte, tenendo conto degli accertamenti tecnici evidenziati dal c.t.u., ha fornito di detti elementi una congrua valutazione ai fini qui rilevanti, correlandola alla situazione concreta. Non sussiste, pertanto, la denunciata violazione di norme, per essersi il Giudice del gravame uniformato ai principi esposti da questa Corte come sopra illustrati, argomentata peraltro l’adesione prestata dalla Corte di Roma alle conclusioni peritali quale giudice di merito, con valutazione che non può essere sindacata in sede di legittimità invocando dalla Corte di cassazione nella sostanza un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in maniera da pervenire ad una nuova validazione e legittimazione dei risultati dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione – ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. – dell’art. 1120 c.c. e dell’art. 1127 c.c. per avere la Corte distrettuale espresso una valutazione netta di violazione del decoro architettonico, come contemplato dall’art. 1120, in asserita adesione al c.t.u. di primo grado, senza tenere in alcun conto la nozione di decoro architettonico espressa dall’art. 1127, comma 3 c.c. Ad avviso delle ricorrenti, infatti, l’occupazione della zona di terrazza di proprietà comune sarebbe di soli mq. 1,30 o addirittura di mq. 1, come rilevato dallo stesso ausiliario, per cui la questione del decoro avrebbe dovuto essere trattata alla luce del concetto di una vera e propria sopraelevazione, per essere stato il manufatto realizzato sostanzialmente sulla loro proprietà esclusiva e al di sopra del loro appartamento. Di qui la nozione attenuata di decoro architettonico.
Con il terzo motivo le ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1120 c.c. ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., per essere stata valutata dal giudice di appello, sulla base delle conclusioni del c.t.u., il decoro architettonico senza tenere in alcun conto le altre opere presenti sulla medesima terrazza pur rilevate dall’ausiliario ma non esaminate ritenendole al di fuori del quesito posto dal giudice. Dunque, ad avviso delle ricorrenti sarebbe mancato da parte del giudice quella valutazione complessiva necessaria per la verifica dell’alterazione del decoro architettonico.
I due motivi vanno esaminati contestualmente, stante la loro connessione oggettiva, che attiene al punto nodale della controversia relativo al pregiudizio dell’ornato. Essi sono infondati anche se occorre procedere alla correzione ex art. 384, comma 4 c.p.c. della motivazione in punto di diritto.
E’ noto come l’art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.
L’aspetto architettonico, cui si riferisce l’art. 1127, comma 3 c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122- bis c.c., dovendo l’intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore. Il giudizio relativo all’impatto della sopraelevazione sull’aspetto architettonico dell’edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile condominiale, e verificando altresì l’esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato (cfr. Cass. 28 giugno 2017 n. 16258; Cass. 15 novembre 2016 n. 23256; Cass. 24 aprile 2013 n. 10048; Cass. 7 febbraio 2008 n. 2865; Cass. 22 gennaio 2004 n. 1025; Cass. 7 febbraio 1998 n. 1297; Cass. 27 aprile 1989 n. 1947).
D’altro canto, questa Corte ha anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l’una dall’altra, sicché anche l’intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. 23 luglio 2020 n. 15675; Cass. 12 settembre 2018 n. 22156; Cass. 25 agosto 2016 n. 17350).
Ora, perché rilevi la tutela dell’aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell’art. 1127, comma 3 c.c., e non già dell’art. 1120, comma 2 c.c., erroneamente indicato dalla Corte distrettuale, che in tal senso va corretta, non occorre neppure che l’edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia.
Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento.

Ciò premesso, la Corte di Roma – in conformità ai principi sopra ricordati – ha riconosciuto che la sopraelevazione realizzata dalla condomina YYYYY, anche all’esito delle modifiche apportate dopo la prima realizzazione del manufatto nel 1976, rivelasse carattere pregiudizievole per l’aspetto architettonico complessivo dei fronti dell’edificio, ai sensi dell’articolo 1127 c.c., in particolare per l’alterazione del decoro avendo creato un volume uniforme di colore verde contrastante con le tinte dell’edificio, oltre che per la modifica dei rapporti volumetrici dell’ultimo piano, giacché eseguita con materiali difformi da quelli del prospetto sottostante.
In tal modo, la sentenza impugnata ha fornito una motivazione adeguata e pienamente condivisibile alla stregua del comune senso estetico, sottolineando come il manufatto disperdesse quella uniformità che attribuisce all’edificio un aspetto ancora ordinato e dignitoso.
La preesistenza di modifiche già apportate, dedotta nel terzo motivo di ricorso, anche con le opere realizzate sul lastrico di opere da parte di altri condomini, non rende certamente ex sé ininfluente la lesione attribuita al manufatto eretto dalla YYYYY e non ne possono perciò costituire valida giustificazione.
Come affermato da questa Corte (v. in termini, Cass. 22 ottobre 2021 n. 29584), il concetto di “aspetto architettonico”, come tutti quelli elaborati dalle scienze idiografiche (qual è appunto l’architettura), che non poggiano su leggi generalizzabili, ma studiano oggetti singoli, non è connotato dall’assolutezza dell’inferenza induttiva tipica delle scienze che, al contrario, elaborano frequenze statistiche direttamente rilevanti per l’accertamento del fatto litigioso. Si tratta, perciò, di nozione che la legge configura con disposizione delineante un modulo generico, il quale richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante l’accertamento della concreta ricorrenza, nella vicenda dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo, ponendosi sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici.
Il giudice d’appello, pur non ricostruendo i rapporti tra i due criteri, ha comunque posto alla base della propria decisione parametri ben più ampi rispetto alla alterazione qualsiasi dell’aspetto del Condominio, cioè della pur minima variazione dello stesso, rilevando come la realizzazione del manufatto contestato, dati i materiali utilizzati, i suoi caratteri strumentali di stabilità e inamovibilità, nonché le sue dimensioni notevoli e la sua incidenza sul volume del fabbricato, abbia realizzato una significativa alterazione dell’aspetto architettonico, con accertamento di merito non censurabile – per quanto sopra detto – in sede di legittimità.
Con il quarto motivo le ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. per avere la Corte di merito omesso di pronunciare non solo sulla domanda principale di avere realizzato il manufatto sulla propria area, ma anche a voler ritenerne l’implicito rigetto, non avrebbe tenuto conto di quella subordinata che chiedeva la determinazione della esatta misurazione della porzione di terrazza condominiale occupata con il manufatto medesimo.
Con il quinto motivo le ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1120 e 1127 c.c. per avere la Corte di merito statuito per la demolizione integrale dell’opera in luogo di rimedi meno gravi e invasivi, come l’arretramento del manufatto per 1 mq circa, ossia per la parte che il c.t.u. ha accertato ingombrare la terrazza comune.
Con il sesto motivo le ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c. per omesso esame della medesima circostanza di cui al mezzo n. 5, ossia di soluzioni di ripristino alternative alla demolizione in coerenza con la violazione in concreto riscontrata dal c.t.u., tenendo conto che l’ausiliare aveva rilevato la necessità dell’arretramento del manufatto con la sua ricostruzione nei limiti dei confini della proprietà esclusiva delle ricorrenti e con tipologia di colori e di materiali conformi allo stile del fabbricato.
Con il settimo motivo viene denunciata ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1102, comma 2 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto che la condotta delle condomine ricorrenti di occupazione in via esclusiva di una porzione del terrazzo comune di solo 1 mq integri una inconciliabilità con il godimento da parte degli altri condomini.
Gli ultimi quattro motivi vanno esaminatati unitariamente per la intima connessione argomentativa che li avvince. Essi sono infondati.
Al giudizio formulato dalla Corte in ordine al pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio, il quarto motivo deduce due profili di illegittimità, che attengono alla omessa pronuncia su due diverse domande, per non avere la corte a tal fine considerato la domanda subordinata di esatta misurazione della porzione di terrazza condominiale occupata con il manufatto. Premesso che le censure in esso sollevate non investono direttamente la ratio della sentenza impugnata, che ha disposto la rimozione dell’opera, e precisato che la misurazione dello spazio occupato è stato ampiamente documentato (“dalla sovrapposizione della planimetria catastale del 1976 e la planimetria dello stato attuale si osserva che la struttura realizzata dalle convenute occupa una parte della terrazza comune”), ad integrazione della motivazione fornita dalla sentenza impugnata, la cui statuizione finale va senz’altro condivisa, merita rilevare che la domanda proposta dalla YYYYY, diretta in sostanza ad ottenere una misura alternativa alla rimozione del manufatto dalla stessa realizzato sul terrazzo del fabbricato, non tiene conto della valutazione operata dal Giudice di merito secondo cui la sola riduzione in pristino della copertura originaria costituiva rimedio per poter porre riparo alla lesione del decoro architettonico (v. pag. 4 secondo cpv della sentenza impugnata), che non poteva essere diversamente eliminata, basandosi la tutela apprestata allo schema di una negatoria servitutis, per essere stata creata un’illegittima servitù a carico di una proprietà condominiale ma in favore di una proprietà esclusiva attigua appartenente alle stesse ricorrenti.
Il rigetto del quarto motivo conduce a ritenere inammissibili le restanti censure che rimangono superate dalle considerazioni appena svolte per l’assorbente considerazione che la valutazione che la Corte di appello è stata chiamata a formulare ed ha svolto aveva ad oggetto non il manufatto, in sé considerato, ma la sua incidenza sul terrazzo di copertura dell’edificio, quale bene comune e struttura che contribuisce a delineare l’aspetto architettonico del fabbricato.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Ne consegue la condanna delle ricorrenti in solido al pagamento delle spese sostenute dalla controricorrente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;
condanna le ricorrenti in solido alla rifusione in favore del controricorrente delle spese di legittimità che liquida in complessivi euro 4.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qualer D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2022.

CategoriesSentenze Civili

CASSAZIONE CIVILE SENTENZA N. 12795/2023 DEL 11 MAGGIO 2023

Art. 1127 c.c. – Sopraelevazione – Nuove costruzioni – Regolamento condominiale contrattuale – Decoro architettonico 

La realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) nell’area sovrastante il fabbricato da parte del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio Va disciplinata alla stregua dell’art. 1127 c.c.
Ai fini dell’art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è, infatti, costituita dalla realizzazione di nuove costruzioni nell’area sovrastante il fabbricato, per cui l’originaria altezza dell’edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche (Cass. 24 gennaio 1983 n. 680; Cass. 10 giugno 1997 n. 5164; Cass. 24 ottobre 1998 n. 10568; Cass. 7 settembre 2009 n. 19281; Cass. 15 giugno 2020 n. 11490). Nella definizione enunciata dal massimo consesso di questa Corte (Cass., Sez. Un., 30 luglio 2007 n. 16794), la nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende, peraltro, non solo il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l’incremento delle superfici e delle volumetrie, seppur indipendentemente dall’aumento dell’altezza del fabbricato.
Non vi è sopraelevazione, viceversa, agli effetti dell’applicabilità della richiamata disposizione, in ipotesi di modificazione solo interna ad un sottotetto, contenuta negli originari limiti strutturali, delle parti dell’edificio sottostanti alla sua copertura.
La pronuncia si pone in evidente contrasto con l’orientamento costante di questa Corte e con il chiaro disposto dell’art. 1127, comma secondo e terzo c.c., secondo cui la sopraelevazione non è ammessa, non solo se le condizioni statiche dell’edificio non la permettono, ma anche se risulti lesiva dell’aspetto architettonico dell’edificio ovvero risulti necessaria l’autorizzazione dei condomini.
Il Giudice distrettuale non poteva considerare legittima la costruzione senza – di fatto – valutarne oltre all’impatto sull’aspetto architettonico dell’edificio in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile (Cass. n. 17350 del 2016; Cass. n. 10048 del 2013; Cass. n. 2865 del 2008), anche alla luce delle previsioni del regolamento condominiale di natura contrattuale, eventualmente più restrittive (Cass. n. 7398 del 1986; più di recente: Cass. n. 14898 del 2013; Cass. n. 1748 del 2013; Cass. 10848 del 2019).
E’ costante l’orientamento di questa Corte (in termini, Cass., Sez. Un., n. 10934 del 2019) secondo cui un regolamento di condominio cosiddetto “contrattuale”, ove abbia ad oggetto la conservazione dell’originaria “facies” architettonica dell’edificio condominiale, comprimendo il diritto di proprietà dei singoli condomini mediante il divieto di qualsiasi opera modificatrice, stabilisce in tal modo una tutela pattizia ben più intensa e rigorosa di quella apprestata al mero “decoro architettonico” dagli artt. 1120 comma 2 (nella formulazione, qui applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), e 1138, comma 1 c.c., con la conseguenza che la realizzazione di opere esterne integra di per sé una modificazione non consentita dell’originario assetto architettonico, che giustifica la condanna alla riduzione in pristino in caso di sua violazione.


S E N T E N Z A

sul ricorso Omissis proposto da:
Condominio XXXXX, in persona dell’Amministratore pro tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avvocato Omissis del foro di Foggia ed elettivamente domiciliato agli indirizzi PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
– ricorrente –
contro
YYYYY, rappresentati e difesi dall’avvocato Omissis del foro di Omissis, come da procura speciale in calce al controricorrente, ed elettivamente domiciliati agli indirizzi PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 477/2018 della Corte di appello di Bari, pubblicata il 15 marzo 2018 e notificata in pari data;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 7 dicembre 2022 dal Consigliere relatore Dott.ssa Omissis;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Omissis, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
sentito l’avvocato Omissis, per parte ricorrente e l’avvocato Omissis, per parte resistente.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 22 ottobre 2007 il Condominio XXXXX, sito in Omissis evocava – dinanzi
al Tribunale di Foggia – YYYYY nella qualità di comproprietarie, per parti ben definite, di appartamento posto al piano attico dello stabile, chiedendone la condanna alla rimozione di una veranda realizzata nella loro abitazione in violazione degli artt. 1127 e 1120, comma 2 c.c., nonché del regolamento condominiale e dello stesso atto di acquisto del bene. Esponeva il Condominio che la YYYYY aveva chiesto ed ottenuto, con delibera del 20.09.2000, dall’assemblea condominiale autorizzazione alla installazione di una pensilina a parziale copertura del proprio terrazzo a livello;
che successivamente la medesima condomina aveva provveduto al frazionamento dell’appartamento ricavandone due unità immobiliari, una delle quali era stata ceduta alla figlia, Omissis, e che in seguito le convenute avevano tamponato la pensilina in questione realizzando una veranda, con struttura in vetro e muratura, e con copertura non più in lamiera grecata (come autorizzata dall’assemblea condominiale) ma in polistrato, in tal modo aumentando il volume abitabile.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza della YYYYY, le quali in via subordinata chiedevano condannarsi il Condominio al risarcimento dei danni subiti a causa dell’ingiustificata pretesa attorea, il giudice adito, con sentenza n. 610 del 2013, svolta dal Condominio ulteriore domanda in via subordinata di condanna delle convenute al pagamento di un indennizzo per la sopraelevazione realizzata, istruita la causa con c.t.u., rigettava la domanda attorea principale e dichiarava inammissibile quella subordinata, regolava le spese di lite in conseguenza.
In virtù di rituale impugnazione interposta dal Condominio, la Corte di appello di Bari, nella resistenza delle appellate, rigettava l’appello e per l’effetto confermava la decisione gravata.
A sostegno della decisione adottata il giudice dell’impugnazione rilevava che il manufatto oggetto di causa sebbene fosse stato realizzato dalle appellate in difformità di quello assentito dall’assemblea condominiale, non alterava in alcun modo l’aspetto architettonico ed il decoro dell’edificio, come emergeva chiaramente dall’accertamento tecnico e dalle foto allegate.
Infatti, pur vero che il manufatto era visibile dalla parte posteriore rispetto al prospetto del Condominio, tuttavia era evidente che sarebbe stato altrettanto visibile e con analogo ingombro qualora fosse stato realizzato con una diversa copertura o non fosse stata chiusa a vetri.
Condivideva, pertanto, la decisione del giudice di prime cure che aveva ritenuto che il manufatto non pregiudicasse l’aspetto esteriore dell’edificio condominiale, inserendosi i materiali utilizzati perfettamente nell’architettura dell’edificio. Né sussisteva la paventata situazione di pericolo per avere il c.t.u. accertato, attraverso l’espletamento di prove di carico, che “la verifica di tipo statico dei carichi ammissibili sul solaio” rientrava nei parametri di ammissibilità, non condivisibili le contestazioni della parte appellante al riguardo, circa la normativa sulla sicurezza sismica, che oltre ad essere inammissibili perché non formulate in sede di note critiche alla c.t.u., erano state correttamente superate dall’ausiliario del giudice proprio alla luce delle verifiche tecniche effettuate.
Infine il manufatto non incideva in alcun modo, per come realizzato, sull’aria e la luce dei piani sottostanti.
Condivideva, da ultimo, anche la pronuncia di inammissibilità della ulteriore domanda del Condominio (definita “riconvenzionale”) per tardività.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Bari ha proposto ricorso l’originario attore, sulla base di cinque motivi, cui hanno resistito con controricorso le YYYYY.
Posto in discussione il ricorso per la decisione allo stato degli atti all’udienza pubblica del 7 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020, in prossimità della quale è stata depositata dal sostituto procuratore generale, dott. Omissis, memoria con la quale ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso, parte ricorrente ha formulato istanza di discussione orale della controversia.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Per un’ordinata trattazione occorre esaminare preliminarmente le eccezioni di inammissibilità dedotte nel controricorso per violazione dei principi di autosufficienza e di specificità del ricorso, nonché dell’art. 366, comma 1 nn. 3 e 6 c.p.c.
Le eccezioni sono infondate. Come statuito da questa Corte, “il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.” (Cass., Sez. Un., n. 37552 del 2021). Si è anche precisato che non è causa di inammissibilità l’inserimento nel corpo del ricorso di copie fotostatiche o scannerizzate di atti relativi al giudizio di merito, qualora la riproduzione integrale di essi sia preceduta da una chiara sintesi dei punti rilevanti per la risoluzione della questione dedotta (v. Cass., Sez. Un., n. 4324 del 2014).
Il ricorso in esame contiene una adeguata esposizione dei fatti di causa e delle questioni giuridiche sollevate nonché la trascrizione dei motivi di appello formulati avverso la decisione del giudice di prime cure; comprende, inoltre, ampie argomentazioni sui dedotti vizi di violazione delle norme specificamente invocate. Si sottrae pertanto alle censure mosse ai sensi del citato art. 366 c.p.c.
D’altra parte, anche il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., quale corollario del requisito di specificità dei motivi – anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021 – non deve essere interpretato in modo eccessivamente formalistico, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e non può pertanto tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito (così Cass., Sez. Un., n. 8950 del 2022; v. anche Cass. n. 12481 del 2022); requisiti nella specie rispettati.
Venendo al merito, con il primo motivo il Condominio lamenta la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., degli artt. 112 e 324 c.p.c. ovvero per nullità della sentenza per omessa pronuncia sul primo motivo di appello circa la violazione dell’art. 1127 c.c. in relazione al divieto posto dal titolo e all’accertamento con effetto di giudicato della sopraelevazione, oltre a vizio di motivazione (art. 111 Cost. e 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 c.p.c.). Ad avviso del Condominio, in realtà la delibera condominiale del 20.09.2000 presa in esame era stata assunta, con tutte le riserve e con esclusione di qualche condomino, al solo fine di ovviare alle lamentate infiltrazioni di acqua piovana nelle giornate ventose, come evidenziato nella relazione tecnica allegata alla medesima quale parte integrante, tanto che consentì di realizzare “una pensilina amovibile, a parziale copertura del terrazzo a livello della YYYYY, in lamiera grecata zincata poggiante su una struttura in canne di ferro leggera”, in quanto essendo aperta e poggiante su modeste canne di ferro, senza opere strutturali di base e di tamponamento, non avrebbe inciso sull’architettura od estetica del fabbricato, o comunque avrebbe avuto un impatto lievissimo. Insiste il Condominio che il divieto di modificare in qualunque modo l’architettura dell’edificio o di effettuare opere aggiuntiva, previsto dall’art. 7 del regolamento condominiale, integrava di per sé un divieto di modificare l’originario assetto architettonico dell’edificio. Sicchè essendo vietata la sopraelevazione, il manufatto realizzato è da ritenersi illegittimo oltre i limiti autorizzati, in deroga a tale divieto (semplice tettoia), per cui anche la sola violazione della delibera giustifica la richiesta di riduzione in pristino.
Il motivo è fondato.
La realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) nell’area sovrastante il fabbricato da parte del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio Va disciplinata alla stregua dell’art. 1127 c.c.
Ai fini dell’art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è, infatti, costituita dalla realizzazione di nuove costruzioni nell’area sovrastante il fabbricato, per cui l’originaria altezza dell’edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche (Cass. 24 gennaio 1983 n. 680; Cass. 10 giugno 1997 n. 5164; Cass. 24 ottobre 1998 n. 10568; Cass. 7 settembre 2009 n. 19281; Cass. 15 giugno 2020 n. 11490). Nella definizione enunciata dal massimo consesso di questa Corte (Cass., Sez. Un., 30 luglio 2007 n. 16794), la nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende, peraltro, non solo il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l’incremento delle superfici e delle volumetrie, seppur indipendentemente dall’aumento dell’altezza del fabbricato.
Non vi è sopraelevazione, viceversa, agli effetti dell’applicabilità della richiamata disposizione, in ipotesi di modificazione solo interna ad un sottotetto, contenuta negli originari limiti strutturali, delle parti dell’edificio sottostanti alla sua copertura.

Tanto chiarito, la lettura della sentenza mostra che la Corte di merito ha escluso l’illegittimità della sopraelevazione, rilevando che la nuova costruzione era stata eretta sul lastrico di proprietà esclusiva delle resistenti, sostenendo inoltre che, in tale ipotesi, sebbene l’opera realizzata dalle condomine, costituita da una struttura chiusa, sostenuta da montanti in ferro e coperta con ‘lamiera zincata coibentata’ e chiusa ‘con una vetrata realizzata con dei profilati in alluminio con vetro camera del tipo con apertura scorrevole e rimovilibi’, non fosse conforme a quella autorizzata dal condominio con la deliberazione assembleare del 20.09.2000 (realizzazione di una tettoia in ‘materiale removibile, poggiante su una ‘struttura in canne di ferro leggere’ “al solo fine di ovviare alle lamentate infiltrazioni di acqua piovana nelle giornate ventose”), tuttavia non ha ritenuto di disporre la rimozione richiesta in quanto l’opera non altera l’aspetto architettonico ed il decoro dell’edificio, come si evinceva dalle fotografie allegate.
La pronuncia si pone in evidente contrasto con l’orientamento costante di questa Corte e con il chiaro disposto dell’art. 1127, comma secondo e terzo c.c., secondo cui la sopraelevazione non è ammessa, non solo se le condizioni statiche dell’edificio non la permettono, ma anche se risulti lesiva dell’aspetto architettonico dell’edificio ovvero risulti necessaria l’autorizzazione dei condomini.
Il Giudice distrettuale non poteva considerare legittima la costruzione senza – di fatto – valutarne oltre all’impatto sull’aspetto architettonico dell’edificio in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile (Cass. n. 17350 del 2016; Cass. n. 10048 del 2013; Cass. n. 2865 del 2008), anche alla luce delle previsioni del regolamento condominiale di natura contrattuale, eventualmente più restrittive (Cass. n. 7398 del 1986; più di recente: Cass. n. 14898 del 2013; Cass. n. 1748 del 2013; Cass. 10848 del 2019).
E’ costante l’orientamento di questa Corte (in termini, Cass., Sez. Un., n. 10934 del 2019) secondo cui un regolamento di condominio cosiddetto “contrattuale”, ove abbia ad oggetto la conservazione dell’originaria “facies” architettonica dell’edificio condominiale, comprimendo il diritto di proprietà dei singoli condomini mediante il divieto di qualsiasi opera modificatrice, stabilisce in tal modo una tutela pattizia ben più intensa e rigorosa di quella apprestata al mero “decoro architettonico” dagli artt. 1120 comma 2 (nella formulazione, qui applicabile ratione temporis, antecedente alle modifiche introdotte dalla legge 11 dicembre 2012, n. 220), e 1138, comma 1 c.c., con la conseguenza che la realizzazione di opere esterne integra di per sé una modificazione non consentita dell’originario assetto architettonico, che giustifica la condanna alla riduzione in pristino in caso di sua violazione.

La Corte di appello non ha tuttavia compiuto alcun accertamento sul punto, omettendo di valutare se l’intervento delle condomine poteva ritenersi vietato alla luce della clausola contenuta nell’art. 9 del regolamento condominiale, di cui alla previsione dell’atto di acquisto del 19.09.1979. L’accertamento della Corte di appello non risulta quindi completo, avendo ignorato un profilo di fatto rilevante ai fini della decisione da prendere, puntualmente rappresentato dalla parte attrice, considerata peraltro la diversità sostanziale dell’opera realizzata (vano chiuso) rispetto a quella autorizzata con la delibera assembleare del 20.09.2000 costituita da una pensilina amovibile del tutto aperta.
Il motivo merita pertanto di essere accolto.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione – ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. – degli artt. 1127, comma 1 e 3 e 1120, comma 2 c.c. in relazione al divieto di alterazione dell’aspetto architettonico, di quello estetico e del decoro, imposto anche dal titolo di acquisto e dal regolamento contrattuale, oltre ad omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., e vizio di motivazione in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. per motivazione illogica o perplessa.
Con il terzo motivo il Condominio deduce la violazione degli artt. 1127, comma 2, 1120, 2727 – 2729 c.c., legge n. 64 del 1974 e D.M. 16.01.1996 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.; violazione degli artt. 111, comma 6 Cost. e 132, comma 2 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 per motivazione perplessa od illogica; omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1127, comma 4 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché degli artt. 99 e 183 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.; motivazione omessa od apparente in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. con riferimento al rigetto della domanda subordinata di indennità di sopraelevazione sul presupposto che fosse tardiva in quanto proposta alla prima udienza di trattazione, senza tenere conto che era conseguenza della riconvenzionale e delle eccezioni avversarie.
Con il quinto motivo il Condominio si duole della violazione dell’art. 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c. in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio ovvero motivazione perplessa od illogica in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.
I restanti quattro motivi sono assorbiti per effetto dell’accoglimento del primo motivo di ricorso, essendo rimesso al giudice di rinvio il compito di riesaminare le questioni sollevate, previo accertamento della legittimità della sopraelevazione.
Conclusivamente, il ricorso va accolto e cassata la sentenza impugnata con rinvio alla stessa Corte di appello di Bari, in diversa composizione, che provvederà al riesame della vicenda alla luce dei principi sopra illustrati.
In sede di rinvio si provvederà alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso;
cassa la sentenza impugnata e rinvia alla medesima Corte di appello di Lecce, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2022.

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Quali sono i vizi gravi relativi agli appalti ed all’attività edificatoria?

L’art. 1669 c.c. indica che trova applicazione la predetta norma quando l’opera rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti.

La norma secondo la natura propria della formulazione delle norme di legge (che non possono che essere generali ed astratte) non è di molto aiuto nell’individuare una casistica dei gravi vizi, ma fortunatamente la copiosa giurisprudenza ha fornito un’ampia casistica di quelli che sono da considerarsi  gravi vizi che affliggono un’opera – e, quindi, rientranti nell’alveo dell’applicabilità dell’art. 1669 c.c. – e nello specifico:

  • Fessurazioni delle strutture in cemento armato atte ad esporre a fenomeni di ossidazione l’armatura in ferro tali da giustificare il timore di vedere compromessa la solidità e la conservazione dell’immobile (Tribunale Ascoli Piceno Sentenza n. 644 del 26 ottobre 2022) “…In particolare, ai fini della responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 c.c., costituiscono gravi difetti dell’edificio non solo quelli che incidono in misura sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell’opera ma anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (impermeabilizzazione, rivestimenti, infissi, pavimentazione, impianti ecc.) purché tali da compromette re la funzionalità dell’opera stessa, e che, senza richiedere lavori di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con gli interventi di manutenzione ordinaria e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (Cass. sez. 2^, 8 maggio 2007 n. 10533; cfr. anche, tra le altre, le sentenze 28 aprile 2004 n. 8140; 26 maggio 2000 n. 6997; 14 febbraio 2000 n. 1608; 7 gennaio 2000 n. 81; 22 dicembre 1999 n. 14449; 12 maggio 1999 n. 4692)”. Ed ancora “….tra i gravi difetti di costruzione riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 1669 c.c., secondo il consolidato e condiviso in dirizzo della Suprema Corte rientrano dunque, senza dubbio, le infiltrazioni d’acqua determinate da carenze di impermeabilizzazione o delle opere di drenaggio che incidano sulla funzionalità dell’opera (cfr. Cass. 1.8.2003 n. 11740; Cass. 8.1.2000 n. 117), così come i difetti degli elementi strutturali o accessori esterni, quali le fessurazioni delle strutture in cemento armato atte ad esporre a fenomeni di ossidazione l’armatura in ferro o il distacco delle canne fumarie dalla struttura portante con pericolo di crollo, tali da giustificare il timore di vedere compromessa la solidità e la conservazione dell’immobile” (App. Ancona 14 febbraio 2012 n. 116);
  • Distacco delle canne fumarie dalla struttura portante con pericolo di crollo tali da giustificare il timore di vedere compromessa la solidità e la conservazione dell’immobile (Tribunale Ascoli Piceno Sentenza n. 644 del 26 ottobre 2022) “…In particolare, ai fini della responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 c.c., costituiscono gravi difetti dell’edificio non solo quelli che incidono in misura sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell’opera ma anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (impermeabilizzazione, rivestimenti, infissi, pavimentazione, impianti ecc.) purché tali da compromette re la funzionalità dell’opera stessa, e che, senza richiedere lavori di manutenzione straordinaria, possono essere eliminati solo con gli interventi di manutenzione ordinaria e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (Cass. sez. 2^, 8 maggio 2007 n. 10533; cfr. anche, tra le altre, le sentenze 28 aprile 2004 n. 8140; 26 maggio 2000 n. 6997; 14 febbraio 2000 n. 1608; 7 gennaio 2000 n. 81; 22 dicembre 1999 n. 14449; 12 maggio 1999 n. 4692)”. Ed ancora “….tra i gravi difetti di costruzione riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 1669 c.c., secondo il consolidato e condiviso in dirizzo della Suprema Corte rientrano dunque, senza dubbio, le infiltrazioni d’acqua determinate da carenze di impermeabilizzazione o delle opere di drenaggio che incidano sulla funzionalità dell’opera (cfr. Cass. 1.8.2003 n. 11740; Cass. 8.1.2000 n. 117), così come i difetti degli elementi strutturali o accessori esterni, quali le fessurazioni delle strutture in cemento armato atte ad esporre a fenomeni di ossidazione l’armatura in ferro o il distacco delle canne fumarie dalla struttura portante con pericolo di crollo, tali da giustificare il timore di vedere compromessa la solidità e la conservazione dell’immobile” (App. Ancona 14 febbraio 2012 n. 116);
  • Realizzazione sia avvenuta con materiali inidonei e/o non a regola d’arte ed anche se incidenti su elementi secondari ed accessori dell’opera, purché tali da influire negativamente ed in modo considerevole sul suo godimento e da comprometterne la normale utilità in relazione alla sua destinazione economica e pratica  (Cassazione Civile Ordinanza n. 28859/2021 del 19 ottobre 2021) “Configurano gravi difetti dell’edificio, a norma dell’art. 1669 c.c., anche le carenze costruttive dell’opera che pregiudicano o menomano in modo grave il normale godimento e/o la funzionalità e/o l’abitabilità della medesima, come allorché la realizzazione sia avvenuta con materiali inidonei e/o non a regola d’arte ed anche se incidenti su elementi secondari ed accessori dell’opera, purché tali da influire negativamente ed in modo considerevole sul suo godimento e da comprometterne la normale utilità in relazione alla sua destinazione economica e pratica, e per questo eliminabili solo con lavori di manutenzione, ancorché ordinaria, e cioè mediante opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici (Cass. s.u. 7756/2017; Cass. 20644/2013; Cass. 84/2013, n. 84; Cass. 20307/2011; Cass. 19868/2009)”;
  • Condutture di adduzione idrica, i rivestimenti, l’impianto di riscaldamento (Corte Appello Torino Sentenza n. 1111/2021 del 13 ottobre 2021) “Ricorda il Collegio come la previsione ex art. 1669 c.c. preveda una garanzia connessa alla presenza di “gravi difetti” costruttivi e che tale nozione, per effetto di una consolidata e condivisibile esegesi della stessa norma, non attenga solo ai vizi radicalmente inficianti le componenti strutturali dell’immobile e determinanti pericolo di rovina, ma anche a quelli che, incidendo gravemente e permanentemente sulla fruibilità abitativa, lo renderebbero, ove non eliminati, inidoneo ad assolvere la sua naturale destinazione. (Cass. 7.03.2011 n. 5388). Rientrano dunque in quest’ambito anche quelle alterazioni che, pur riguardando una parte dell’opera, incidono in modo globale sulla sua struttura e funzionalità e ne menomano sensibilmente il godimento (Cass. 4.11.2005 n. 21351; Cass. 9.09.2013 n. 20644); inoltre, tale compromissione può riguardare anche quegli elementi accessori o secondari che consentono l’impiego duraturo cui è destinato l’immobile (quali, ad esempio, le condutture di adduzione idrica, i rivestimenti, l’impianto di riscaldamento) incidendo in modo considerevole sul godimento dell’immobile (Cass. 6 giugno 2012 n. 9119);
  • Accertata mancanza di potere fono-isolante di pareti divisorie, solai e facciata (Cassazione Civile Ordinanza n. 7875/2021 del 19 marzo 2021) “Il  Collegio intende dar seguito all’orientamento giurisprudenziale secondo cui, anche alla stregua dell’art. 1130 c.c., n. 4, sussiste la legittimazione dell’amministratore a proporre l’azione di natura extracontrattuale ex art. 1669 c.c., intesa a rimuovere i gravi difetti di costruzione, nel caso in cui questi, col determinare un’alterazione che incida negativamente ed in modo considerevole sul godimento dell’immobile, riguardino l’intero edificio condominiale e i singoli appartamenti (nella specie, l’accertata mancanza di potere fono-isolante di pareti divisorie, solai e facciata), vertendosi in una ipotesi di causa comune di danno che abilita alternativamente l’amministratore del condominio e i singoli condomini ad agire per il risarcimento, senza che possa farsi distinzione tra parti comuni e singoli appartamenti o parte di essi soltanto (Cass. Sez. 2, 31/01/2018, n. 2436; Cass. Sez. 2, 06/02/2009, n. 3040; Cass. Sez. 2, 25/03/1998, n. 3146; Cass. Sez. 2, 18/06/1996, n. 5613; Cass. Sez. 2, 23/03/1995, n. 3366)”;
  • È stata esclusa che la mancanza del massetto e della guaina sulla copertura dell’edificio costituissero vizi costruttivi gravi tali da incidere sulla struttura e funzionalità globale dell’immobile, menomandone il godimento in maniera apprezzabile. Il CTU aveva rilevato che il telo in guaina è finalizzato a limitare la necessità di interventi di riposizionamento del manto di copertura, ma non risulta indispensabile ai fini dell’ impermeabilizzazione del fabbricato, trattandosi di tetto a falda e sovrastante un solaio di soffittatura non praticabile (Tribunale di Treviso Sentenza n. 989/2019 del 7 maggio 2019);
  • estese infiltrazioni e muffe su tutte le quote dei parametri murari interni (Tribunale di Cosenza sentenza n. 2325/2019 del 17 novembre 2019);
  • (Tribunale di Latina Sentenza n. 2713/2019 del 11 novembre 2019: “Esemplificando, sono stati inquadrati nell’ambito della norma in oggetto i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione (sentenza n. 2238/12); opere di pavimentazione e di impiantistica (n. 1608/00);  infiltrazioni d’acqua, umidità nelle murature e in generale problemi rilevanti d’impermeabilizzazione… un ascensore panoramico esterno ad un edificio (n. 20307/11); l’inefficienza di un impianto idrico (n. 3752/ 07); l’inadeguatezza recettiva d’una fossa biologica (n. 13106/95); l’impianto centralizzato di riscaldamento (nn. 5002/94, 7924/92, 5252/86 e 2763/84); il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio (nn. 6585/86, 4369/82 e 3002/81, 1426/76); il collegamento diretto degli scarichi di acque bianche e dei pluviali discendenti con la condotta fognaria (n. 5147/87); infiltrazioni di acque luride (n. 2070/78)… Nell’economia del ragionamento giuridico sotteso ai casi sopra menzionati, che fa leva sulla compromissione del godimento dell’immobile secondo la sua propria destinazione, è del tutto indifferente che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova”. In definitiva, la ratio della norma è così riassunta: “Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 c.c. come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione. Completano e confermano la validità di tale esito ermeneutico, l’irrazionalità (non conforme ad un’interpretazione costituzionalmente orientata) di un trattamento diverso tra fabbricazione iniziale e ristrutturazione edilizia, questa non diversamente da quella potendo essere foriera dei medesimi gravi pregiudizi; e la pertinente osservazione (v. la richiamata sentenza n. 22553/15) per cui costruire, nel suo significato corrente (oltre che etimologico) implica non l’edificare per la prima volta e dalle fondamenta, ma l’assemblare tra loro parti convenientemente disposte (cum struere, cioè ammassare insieme”. Posto il riconoscimento da parte di consolidata giurisprudenza della natura extracontrattuale della responsabilità ex art. 1669 c.c. la sentenza specifica che “Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale”;
  • Mancanza di isolamento acustico è stato considerato grave vizio costruttivo ex art. 1669 c.c. dal Tribunale di Ascoli Piceno (Sentenza n. 856/2018 del 17 settembre 2018);
  • Vizi della pavimentazione manifestatisi e aggravatisi progressivamente in tutta l’abitazione (Tribunale di Salerno Sentenza n. 684/2017 del 9 febbraio 2017) Secondo  costante indirizzo giurisprudenziale di legittimità “configurano gravi difetti dell’edificio a norma dell’art. 1669 c.c. le carenze costruttive dell’opera, concernenti anche una singola unità abitativa, che ne menomano in modo grave il normale godimento, a causa di realizzazione effettuata con materiali inidonei e/o non a regola d’arte ed anche se incidenti su elementi secondari ed accessori (quali impermeabilizzazione, rivestimenti, infissi, pavimentazione, impianti, etc), purché tali da compromettere la sua funzionalità e l’abitabilità ed eliminabili solo con lavori di manutenzione, ancorché ordinaria, e cioè mediante opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture” (v. Cass. 16.02.2012 n. 2238; Cass. 08.05.2007, n. 10533; Cass. 09.12.2013, n. 27433). Orbene, va rigettata l’eccezione di decadenza e di prescrizione sollevata dal convenuto, ai sensi del citato art. 1669 c.c. Nel caso concreto, l’attrice ha adeguatamente dimostrato che la controparte, con riguardo ai vizi della pavimentazione manifestatisi e aggravatisi progressivamente in tutta l’abitazione (ad eccezione della camera da letto ove era stato già effettuato dagli acquirenti -alcuni anni addietro e, precisamente, nel 2001- un intervento di sostituzione del pavimento), assumeva spontaneamente, in favore dell’attrice medesima, una diversa e autonoma obbligazione avente ad oggetto l’impegno di eliminare i vizi e i difetti dell’opera realizzata”;
  • Gravi vizi e malfunzionamenti degli infissi (Tribunale di Catania Sentenza n. 1310/2020 del 15 aprile 2020) “In via preliminare, va osservato che la società E.R. s.r.l. viene convenuta in giudizio, quale ditta costruttrice dell’edificio, in considerazione della quale segnatamente se ne chiede la condanna all’eliminazione dei vizi di costruzione, così facendosi valere una garanzia che integra, attesa la natura dei vizi in concreto dedotti tali da incidere in misura rilevante e permanente su elementi essenziali all’abitabilità dell’immobile, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (tra le tante v. Cass. nn. 3752/07, 8140/04, 7537/07, 13106/95) la responsabilità di natura extracontrattuale di cui all’art.1669 c.c., facente carico non soltanto (come quella di cui all’art.1667 c.c.) sull’appaltatore, ma anche sul venditore dell’immobile, ove lo stesso ne sia stato anche costruttore (cfr. Cass. Civ., 08.11.2010, n.22656. Cass. nn. 7634/06, 3406/06, 21351/05, 567/05). Infatti, deve rilevarsi che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, in tema di contratto d’appalto, sono gravi difetti dell’opera, rilevanti ai fini dell’art. 1669 c.c., anche quelli che riguardino elementi secondari ed accessori (come impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, etc.), purché tali da comprometterne la funzionalità globale e la normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo (cfr., Cass. Civ., 7756/2017). Nella specie, in sede di A.T.P. si è accertato che le anomalie riscontrate hanno causato la presenza di infiltrazioni di acqua piovana, di infiltrazione della luce esterna, nonché l’impedimento nella regolare chiusura di ante e serrature, determinando un pregiudizio nel godimento dell’immobile utilizzato per scopi abitativi”;
  • Immissioni illecite derivanti dalla canna fumaria e  doglianze riguardanti l’isolamento acustico dell’abitazione (Cassazione Civile Sentenza n. 24763/2015 del 4 dicembre 2015) “Secondo la costante giurisprudenza, tali gravi difetti sono anche le carenze costruttive dell’edificio, inteso, altresì, come singola unità abitativa, che ne pregiudichino o menomino in modo grave il normale godimento, la funzionalità o l’abitabilità, pur se incidenti su elementi secondari ed accessori dell’opera stessa (Cass., Sez. 2, n. 8140 del 28 aprile 2004, Rv. 572418)”);
  • Lesioni e fessurazioni dei pavimenti dovuti ad anomalia di posa del sottofondo (Cassazione Civile Sentenza  n. 10857/2008 del 29 aprile 2008) “Nel caso in esame la motivazione della sentenza impugnata risulta incoerente con i principi affermati e segnata da insufficienze e contraddittorietà. Il giudice di merito nella parte espositiva (pag. 9 e inizio pag. 10) ha riferito che i difetti verificati dal ctu consistono in lesioni e fessurazioni dei pavimenti dovuti ad anomalia di posa del sottofondo, che, ritirandosi, ha indotto sollecitazioni tali da danneggiare le piastrelle. Ha aggiunto che è sorta la necessità di demolizione dei pavimenti e dei sottofondi, tranne che nei punti in cui la modestia delle lesioni consente la semplice sostituzione della pavimentazione. Ciò posto, ha subito proclamato che tali difetti non assurgono alla nozione di gravità, ma, invece di spiegare tale affermazione, ha avviato la lunga cronaca di precedenti di cui si è detto. Nella parte finale della motivazione ha rapidamente ripreso la valutazione della gravità delle lesioni, riducendole a mere fessurazioni che non impediscono la fruizione dei pavimenti e che rilevano solo dal punto di vista estetico, senza incidere “sulla abitabilità e salubrità delle porzioni immobiliari”);
  • Difetto di costruzione dell’impianto idrico (Cassazione Civile Sentenza n. 3752/2007 del 19 febbraio 2007) “Ben vero, secondo la giurisprudenza di legittimità, il grave difetto di costruzione che legittima l’applicabilità dell’art. 1669 c.c., può consistere in qualsiasi alterazione, conseguente all’imperfetta esecuzione dell’opera, che ne pregiudichi in modo considerevole il normale godimento dell’immobile, e lo stesso principio ha trovato applicazione anche in ipotesi specifiche, assimilabili al difetto di costruzione dell’impianto idrico, come l’inefficienza della canna fumaria e dell’impianto centralizzato di riscaldamento (Cass. 26.6.1992 n. 7924; Cass. 10.3.01 n. 3002);
  • Inefficienza dell’impianto centralizzato (Cassazione Civile Sentenza n. 3752/2007 del 19 febbraio 2007) “Ben vero, secondo la giurisprudenza di legittimità, il grave difetto di costruzione che legittima l’applicabilità dell’art. 1669 c.c., può consistere in qualsiasi alterazione, conseguente all’imperfetta esecuzione dell’opera, che ne pregiudichi in modo considerevole il normale godimento dell’immobile, e lo stesso principio ha trovato applicazione anche in ipotesi specifiche, assimilabili al difetto di costruzione dell’impianto idrico, come l’inefficienza della canna fumaria e dell’impianto centralizzato di riscaldamento (Cass. 26.6.1992 n. 7924; Cass. 10.3.01 n. 3002);
  • Inefficienza della canna fumaria (Cassazione Civile Sentenza n. 3752/2007 del 19 febbraio 2007) “Ben vero, secondo la giurisprudenza di legittimità, il grave difetto di costruzione che legittima l’applicabilità dell’art. 1669 c.c., può consistere in qualsiasi alterazione, conseguente all’imperfetta esecuzione dell’opera, che ne pregiudichi in modo considerevole il normale godimento dell’immobile, e lo stesso principio ha trovato applicazione anche in ipotesi specifiche, assimilabili al difetto di costruzione dell’impianto idrico, come l’inefficienza della canna fumaria e dell’impianto centralizzato di riscaldamento (Cass. 26.6.1992 n. 7924; Cass. 10.3.01 n. 3002);
  • Carenza di impermeabilizzazione (Cassazione Sentenza 117/2002 8 gennaio 2002 del: “Tra i gravi difetti di costruzione per i quali è operante a carico dell’appaltatore la garanzia prevista dall’art. 1669 c.c. rientrano, come ritenuto dalla sentenza impugnata, le infiltrazioni di acqua determinate da carenze della impermeabilizzazione perché incidono sulla funzionalità dell’opera menomandone il godimento (v. Cass., 2 marzo 1998 n. 2260)”;
  • Infiltrazioni d’acqua determinate da difetto costruttivo che interessa tetti o lastrici solari, (Cassazione Civile Sentenza n. 4692/1999 del 12 maggio 1999): “É qui sufficiente osservare che, tipologicamente, il difetto costruttivo che interessa i tetti o i lastrici solari e determina infiltrazioni di acque piovane negli appartamenti sottostanti è stato reiterate  volte considerato un difetto grave (Cass. 26 aprile 1983 n. 2858; 28 febbraio 1984 n. 1427; 24 agosto 1991 n. 9082; 11 dicembre 1992 n.13112)”;
  • Infiltrazioni di acqua determinate da carenze dell’impermeabilizzazione (Cassazione Civile Sentenza  n. 2260/1998 del 2 febbraio 1998): “La doglianza è infondata in quanto questa S.C. ha avuto più volte occasione di affermare che rientrano nel campo di applicazione dell’art. 1669c.c. art. 1669 – Rovina e difetti di cose immobili cod. civ. le infiltrazioni di acqua determinate da carenze dell’impermeabilizzazione (cfr., sul punto: sent. 21 dicembre 1992 n. 13112; 24 agosto 1991 n. 9082; 8 aprile 1986 n. 2431)”;
  • I danni possono consistere in lesioni alle strutture, imperfezioni, difformità, difetti di rifiniture etc., che diminuiscono sensibilmente il valore economico dell’edificio nel suo complesso e delle singole unità immobiliari (Cassazione Civile Sentenza n. 2977/1998 del 20 marzo 1998):  “Per nozione di comune esperienza, l’esistenza di gravi danni alla struttura dell’edificio non coincide necessariamente con il pericolo di crollo immediato. I danni possono consistere in lesioni alle strutture, imperfezioni, difformità, difetti di rifiniture etc., che diminuiscono sensibilmente il valore economico dell’edificio nel suo complesso e delle singole unità immobiliari, dai quali tuttavia non deriva necessariamente il pericolo di crollo”;
  • Umidità riscontrata negli appartamenti, nociva sia alle persone che agli arredi e agli indumenti,  (Cassazione Civile Sentenza n.  3146/1998 del 25 marzo 1998) “ I “gravi difetti” dai quali deriva la responsabilità prevista dall’art. 1669 c.c. sono non soltanto quelli che incidono sulla struttura e funzionalità del fabbricato, ma anche i vizi costruttivi che riducono in misura apprezzabile l’utilità dell’immobile alterandone il normale godimento. In conseguenza di tale principio, che ha trovato ripetute affermazioni nella giurisprudenza di questa corte (Cass., n. 5002 del 1994; n. 2123 del 1993; n. 5147 del 1987; n. 5252 del 1986; n. 1427 del 1984; n. 3971 del 1981), deve ritenersi corretta la decisione adottata dalla corte di merito, che ha appunto considerato grave difetto ai sensi dell’art. 1669 c.c. “l’umidità riscontrata negli appartamenti, nociva sia alle persone che agli arredi e agli indumenti”, osservando, sulla scorta della CTU, che l’inconveniente non si sarebbe verificato “se fosse stata adottata una coibentazione termica per ogni parte del fabbricato”, così come imponevano le regole dell’arte”;
  • Inadeguatezze della rete fognaria (Cassazione Civile Sentenza n. 2775/1997 del 28 marzo 1997) “Ugualmente questa S.C. si è ripetutamente espressa in senso contrario alla tesi del ricorrente secondo la quale le inadeguatezze della rete fognaria non rientrerebbero nei gravi difetti di cui all’art. 1669 cod. civ. (cfr. sent. 21 aprile 1990 n. 3339; 12 giugno 1987 n. 5147; 25 febbraio 1979 n. 538)”;
  • Infiltrazioni d’acqua  (Cassazione Civile Sentenza  n. 2775/1997 del 28 marzo 1997) “La inquadrabilità delle infiltrazioni di acqua determinate da carenze dell’impermeabilizzazione o della copertura del lastrico solare nei gravi difetti di cui all’art. 1669 cod. civ. è stata ripetutamente affermata da questa S.C. (cfr. sent.: 11 dicembre 1992 n. 13112; 24 agosto 1991 n. 9082; 8 aprile 1986 n. 2431)”;
  • Continuo scivolamento del tetto nel suo complesso (Cassazione Civile Sentenza  n. 2775/1997 del 28 marzo 1997) “’insufficiente numero delle tegole, va rilevato che nella specie vi era stato un continuo scivolamento del tetto nel suo complesso, con pericolo di caduta di tegole e non un semplice spostamento, che si potrebbe definire fisiologico, di singole tegole. Su tali premesse non sembra censurabile la conclusione dei giudici di merito, i quali hanno ricondotto tale scivolamento nei gravi difetti di cui all’art. 1669c.c. art. 1669 – Rovina e difetti di cose immobili cod. civ”;
  • Difetti che hanno gravemente compromesso la vivibilità e la godibilità degli alloggi; difetti costituiti da rigonfiamenti dei pavimenti, con cretti e spacchi, ed imputabili al rigonfiamento a sua volta del terreno sottostante, dovuto dalla mancata realizzazione di un idoneo drenaggio da parte del costruttore (Corte Appello Perugia 5 novembre 1996);
  • Distacco dell’intonaco che interessa la vastità delle superfici (Cassazione Civile Sentenza n. 10624/1996 del 29 novembre 1996)  “La Corte di merito ha appunto accertato che, nel caso concreto, il distacco dell’intonaco, pur non interessando le strutture portanti dell’edificio, alterava, per la notevole estensione delle superfici interessate, il normale godimento dell’immobile e la sua funzione economica, così puntualmente individuando uno dei presupposti dai quali l’art. 1669 cod. civ. fa dipendere la responsabilità del costruttore, con un accertamento di fatto che non è censurabile in questa sede sotto il profilo di merito e che è inutilmente criticato dalla ricorrente sotto il profilo della congruità della motivazione che lo sorregge dato che il concreto pericolo per l’incolumità delle persone non è affatto un presupposto necessario della responsabilità del costruttore prevista dall’art. 1669 c.c.”;
  • Difetti delle fosse biologiche con fuoriuscita di liquami (Cassazione Civile Sentenza  n. 13106/1995 del 27 dicembre 1995) “In ossequio a tali principi, la Corte di merito correttamente ha compreso i difetti delle fosse biologiche, dalle quali sono fuoriusciti i liquami che hanno invaso i locali interrati dell’edificio condominiale, nel novero dei gravi difetti previsti per la responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c., escludendo conseguentemente nella fattispecie l’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 1667 c.c. (conforme, ed in termini per la fuoriuscita di liquami, Cass. 21 aprile 1990, n. 3339)”;
  • Difetti dell’impianto centralizzato di gas liquido di gravità (Cassazione Civile Sentenza  n. 5002/1994 del 21 maggio 1994) “la responsabilità per rovina o gravi difetti di edifici, sancita dall’art. 1669 c.c. per finalità di ordine generale, ha natura extracontrattuale e opera non solo a carico dell’appaltatore nei confronti del committente, ma anche – come appunto nel caso di specie – a carico del costruttore nei confronti dell’acquirente (v. Cass. 24.02.1986 n. 1114, Cass. 5.04.1990 n. 2805, Cass. 19.10.1992 n. 11450); ai fini della configurabilità della responsabilità medesima vanno ritenuti gravi difetti dell’edificio – in conformità a consolidato orientamento di questa Corte (v. Cass. 27.04.1981 n. 2523, Cass. 27.05.1981 n. 3482, Cass. 24.10.1983 n. 6229) – non solo quelli costruttivi che possono pregiudicare la sicurezza o la stabilità del fabbricato, ma anche quelli da cui deriva apprezzabile danno alla funzione economica o sensibile menomazione del normale godimento dell’edificio stesso. Proprio in applicazione di tali criteri si è ritenuto costituiscano gravi difetti, dai quali deriva la responsabilità prevista dall’art. 1669 c.c., quelli incidenti, come nella fattispecie, sull’impianto centralizzato di riscaldamento, conseguendone grave limitazione del normale godimento delle abitazioni (v. Cass. 7.05.1984 n. 2763, Cass. 27.08.1986 n. 5252, Cass. 26.06.1992 n. 7924)”;
  • Gravi difetti sull’impianto centralizzato di riscaldamento (Cassazione Civile Sentenza  n. 5002/1994 del 21 maggio 1994) “la responsabilità per rovina o gravi difetti di edifici, sancita dall’art. 1669 c.c. per finalità di ordine generale, ha natura extracontrattuale e opera non solo a carico dell’appaltatore nei confronti del committente, ma anche – come appunto nel caso di specie – a carico del costruttore nei confronti dell’acquirente (v. Cass. 24.02.1986 n. 1114, Cass. 5.04.1990 n. 2805, Cass. 19.10.1992 n. 11450); ai fini della configurabilità della responsabilità medesima vanno ritenuti gravi difetti dell’edificio – in conformità a consolidato orientamento di questa Corte (v. Cass. 27.04.1981 n. 2523, Cass. 27.05.1981 n. 3482, Cass. 24.10.1983 n. 6229) – non solo quelli costruttivi che possono pregiudicare la sicurezza o la stabilità del fabbricato, ma anche quelli da cui deriva apprezzabile danno alla funzione economica o sensibile menomazione del normale godimento dell’edificio stesso. Proprio in applicazione di tali criteri si è ritenuto costituiscano gravi difetti, dai quali deriva la responsabilità prevista dall’art. 1669 c.c., quelli incidenti, come nella fattispecie, sull’impianto centralizzato di riscaldamento, conseguendone grave limitazione del normale godimento delle abitazioni (v. Cass. 7.05.1984 n. 2763, Cass. 27.08.1986 n. 5252, Cass. 26.06.1992 n. 7924)”;
  • Infiltrazioni d’acqua e di umidità non esigue (Cassazione Civile Sentenza  n. 13112/ 1992 del 11 dicembre 1192) “i gravi difetti dell’edificio, o di altro immobile, che possono dar luogo a responsabilità del costruttore nei confronti del committente o dell’acquirente ai sensi dell’art. 1669 cod. civ. sono ravvisabili, oltre che nell’ipotesi di rovina e di evidente pericolo di rovina, anche in presenza di fatti che, senza influire sulla stabilità, pregiudicano in modo grave la funzione cui l’immobile è destinato e non può dubitarsi che fra i gravi difetti, rilevanti sotto il profilo considerato, debbano essere fatti rientrare anche quelli inerenti alla realizzazione della copertura di un fabbricato – terrazza o tetto – che determinino non esigue e non contenute infiltrazioni d’acqua e di umidità negli alloggi sottostanti (cfr., in proposito, Cass., Sez. II civ., sent. n. 2431 dell’8 aprile 1986)”;
  • Inefficienza dell’impianto centralizzato di riscaldamento (Cassazione Civile Sentenza  n. 7924/1992 del 26 giugno 1992) “ Secondo l’orientamento ormai costante di questa Corte Suprema, i vizi del bene oggetto del rapporto di appalto, allorché si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate, per la loro natura, a lunga durata, non sono limitati a quelli che determinano rovina totale o parziale ovvero pericolo di rovina, ma debbono essere estesi a quelli che comunque provocano una grave limitazione del normale godimento del bene. E tale effetto indubbiamente deriva dall’inefficienza dell’impianto centralizzato di riscaldamento, che rende l’immobile privo di tale servizio e quindi pressoché inutilizzabile – specie tenuto conto dell’uso cui è destinato – per molti mesi all’anno. In ordine, poi, alla prova fornita dalla parte attrice, va rilevato da un punto di vista generale che, quando la venditrice dell’immobile affetto dai gravi vizi è, come nella specie avviene, anche costruttrice del fabbricato, la prova predetta si esaurisce nella dimostrazione dell’esistenza del vizio stesso (nella specie l’inefficienza dell’impianto di riscaldamento), incombendo eventualmente sul convenuto la prova che il difetto deriva da cause a lui non imputabili. Nella specie, poi, il giudice del merito ha accertato attraverso la consulenza tecnica preventiva che l’inefficienza dell’impianto è derivata dal cedimento dei tubi e, quindi, dalla pessima qualità del materiale impiegato;
  • Inadeguatezza recettiva e l’errata pendenza delle tubazioni della rete fognaria, causa di fuoriuscita dei liquami (Cassazione Civile Sentenza n. 3339/1990 del 21 aprile 1990);
  • Collegamento diretto degli scarichi delle acque bianche e delle caditoie pluviali alla condotta fognaria; collegamento comportante la fuoriuscita di miasmi espandentisi nell’aria, e persino negli appartamenti, per effetto della mancanza di idonee vasche di depurazione. “Il giudice di appello ha ritenuto, basandosi su quanto emerge dalla consulenza tecnica assunta nel corso del giudizio di merito, che le deficienze lamentate riguardo al fabbricato siano consistite nel collegamento diretto degli scarichi delle acque bianche e delle caditoie pluviali alla condotta fognaria; collegamento comportante la fuoriuscita di miasmi espandentisi nell’aria, e persino negli appartamenti, per effetto della mancanza di idonee vasche di depurazione. Tale deficienza ha comportato la trasformazione di pozzetti d’ispezione in posti di sedimentazione, con accumulo di materia fecale preesistente. Infine uno degli scarichi è stato incongruamente collegato ad un pozzo assorbente inidoneo. Tali vizi, da imputare all’esecuzione dei lavori e allo scadente materiale impiegato, hanno comportato il diniego della licenza di abitabilità. Infine è stato stabilito che gli interessati hanno acquistato la piena consapevolezza dell’entità e delle conseguenze dei gravi inconvenienti suddetti il 6 luglio 1977, data della perizia stragiudiziale redatta, per loro incarico, dall’ing. Omissis. La Corte rileva che alla stregua degli insindacabili accertamenti che precedono, i giudici d’appello hanno correttamente ritenuto la tempestività dell’azione promossa dai Omissis. Va invero considerato, innanzi tutto, che i gravi difetti dell’edificio, ai fini e per gli effetti di cui all’art. 1669 c.c., sono determinati non solo da quei difetti di costruzione incidenti in modo apprezzabile sugli elementi strutturali dell’opera ovvero su quelli necessari perché questa possa fornire la normale utilità propria della sua destinazione, ma anche da quei vizi che determinano una notevole menomazione della possibilità di normale godimento del bene. Ora la corte partenopea, ispirandosi a tale corretto principio, ha giudicato, con apprezzamento che sfugge al sindacato di legittimità, che i difetti menzionati siano catalogabili in quest’ultima categoria”. (Cassazione Civile Sentenza n. 5147/1987 del 12 giugno 1987); 
  • Crollo e disfacimento del rivestimento esterno dell’edificio. “Si è costantemente ritenuto (per tutte, Cass. 3002-81, 3971-81, 4369-82 per ipotesi di specie; 6229-83) che, ai fini della responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 cc. costituiscono gravi difetti dell’edificio non solo quelli incidenti sulla struttura e funzionalità dell’opera, ma anche i vizi costruttivi che menomano apprezzabilmente il normale godimento della cosa o impediscano che questa fornisca l’utilità cui è destinata, come la caduta dell’intonaco e del rivestimento dei muri perimetrali. Si è del pari ritenuto che, ai fini della responsabilità di cui sopra si deve parificare all’appaltatore il venditore – o qualsiasi altro soggetto – che abbia costruito l’immobile con propri mezzi e direttamente, e quindi assumendosi la responsabilità dell’opera, non essendo quindi necessario che si tratti di un costruttore professionale (v. Cass. 2452-70, 275-65, 5861-81). Per costante giurisprudenza di questa Corte, la responsabilità ex art. 1669 c.c. è di natura extracontrattuale, sancita da ragioni di pubblica incolumità e trascendente i rapporti negoziali (275-65, 2907-66, 2452-770, 5861-81); ed è legittimato, nel condominio, a farlo valere anche l’amministratore in relazione ai beni comuni e per la natura di essa (2954-83, 6370-79, 2907-66). La Corte del merito qualificò correttamente l’azione, riguardo alla pretesa spiegata ed alle cause di essa (crollo e disfacimento del rivestimento esterno dell’edificio); e non è contestato che la persona che aveva proposto la domanda fosse l’amministratore del Condominio, né che lo Omissis ne fosse il costruttore venditore”. (Cassazione Civile Sentenza n. 6585/1986 del 11 novembre 1986);
  • Gravi difetti costruttivi della canna fumaria dell’impianto centrale di riscaldamento, sulla base del rilievo che il dissesto della canna fumaria, incidendo sull’intero impianto di riscaldamento, impedisce il normale godimento dell’immobile di cui l’impianto è parte integrante. “Poiché i vizi di costruzione che incidono in misura grave sugli elementi della opera possono riguardare sia la struttura che la funzionalità della stessa in rapporto al godimento normale cui essa è destinata, devesi rilevare che i giudici di appello, mentre hanno correttamente escluso la gravità del vizio di sollevamento del pavimento del pianerottolo del settimo piano chiarendo che il sottofondo dello stesso era perfetto, sicché la occorrente riparazione si rivelava di ordine meramente estetico e di entità di ben scarso rilievo al pari delle riparazioni occorrenti ai discendenti dei pluviali di copertura, le cui alterazioni non avevano determinato infiltrazioni di acqua negli appartamenti, ma soltanto una macchia di umidità nel parametro di cortina esterna tra i piani quinto, sesto e settimo, invece per quanto attinente la canna fumaria hanno in definitiva addotto a fondamento della valutazione di non gravità del vizio ragioni contrarie a diritto escludendo, per un verso, ogni pregiudizio alla funzionalità dell’impianto termico, come se la canna fumaria non ne costituisse parte integrante, e, per altro verso, affermando che la natura del materiale di composizione potesse essere di facile usurabilità e non invece destinato a lunga durata secondo la funzione del manufatto, sicché il vizio non potesse rientrare nella più ampia garanzia della norma di cui all’art. 1669 c.c. La Corte intende sul punto confermare il precedente specifico costituito dalla sentenza 7 maggio 1984 n. 2763, nella quale, in applicazione del principio che i gravi difetti di cui all’art. 1669 c.c. non sono solo quelli incidenti sulla struttura e funzionalità del fabbricato, ma anche i vizi costruttivi che alterano in modo apprezzabile il normale godimento dell’immobile o impediscono che questo fornisca le utilità cui è destinato, ha ritenuto correttamente motivata la decisione del giudice del merito che ha ravvisato la responsabilità ex art. 1669 per i gravi difetti costruttivi della canna fumaria dell’impianto centrale di riscaldamento, sulla base del rilievo che il dissesto della canna fumaria, incidendo sull’intero impianto di riscaldamento, impedisce il normale godimento dell’immobile di cui l’impianto è parte integrante”. (Cassazione Civile Sentenza n. 5252/1986 del 27 agosto 1986);
  • Infiltrazioni d’acqua piovana dal tetto dell’edificio e distacco di pezzi di intonaco che mettevano in pericolo l’incolumità dei passanti. “Inoltre è da tenere presente che la rovina o i gravi difetti contemplati dall’art. 1669 C.C sono soltanto quelli cagionati da vizio del suolo o da difetto di costruzione e non quelli derivanti dalla naturale usura dell’edificio, sicché appare chiaro che la citata norma non ha voluto stabilire una garanzia di durata (che dovrebbe prescindere dall’accertamento di una specifica causa del danno) ed ha inteso, invece, prolungare la responsabilità dell’appellatore oltre i termini previsti dagli artt. 1667-1968- nella considerazione che per gli edifici o per altri immobili destinati a lunga durata il pericolo di rovina o i gravi difetti possono manifestarsi dopo in lungo intervallo ed è pertanto opportuno, sia per la tutela contrattuale del committente, sia nell’interesse della pubblica incolumità, determinare un più ampio periodo di tempo entro il quale si presume, secondo lo “id quod plerumque accidit”, che i vizi essenziali dell’immobile, rimasti occulti al momento della costruzione, debbano comunque venire alla luce. Non può sussistere quindi, una responsabilità “pro quota”, limitata ad un determinato periodo di garanzia, perché la citata norma non contiene tale criterio riduttivo e nel sancire l’obbligo del risarcimento dei danni si riferisce indubbiamente la ripristino dell’immobile nelle sue normali condizioni statiche e funzionali previste dal contratto d’appalto. Pertanto nella specie, poiché i gravi difetti riscontrati nel tetto del condominio FAR dipendevano indubbiamente da scarsa resistenza del materiale di copertura posto in opera dall’Impresa Francesio, come questa stesa ha riconosciuto, e ricorreva, pertanto, il vizio di costruzione previsto dall’art. 1669 C.C., l’appaltatrice era obbligata a risarcire l’intero danno, cioè a rimborsare la spesa sostenuta dal condominio per ristabilire la piena funzionalità e resistenza dell’immobile, così come ha ritenuto la sentenza impugnata”. (Cassazione Civile Sentenza n. 7400 del 12 dicembre 1986);
  • Infiltrazioni d’acqua dai terrazzi di copertura dovute all’insufficiente pendenza delle coperture stesse. “Secondo l’interpretazione che la giurisprudenza ha da tempo dato all’art. 1669 C.C. (tra le altre: sent. nn. 206-79 e 4356-80) tra i “gravi difetti” – che vi sono tenuti distinti, ai fini della responsabilità dello appaltatore nei confronti dei committenti, dalla rovina e dall’evidente pericolo di rovina, totale o parziale, dell’immobile – sono da ricomprendersi quelli che, pur non incidendo sulla statica delle strutture, pregiudicano altrimenti in modo grave (e l’apprezzamento della gravità costituisce giudizio di merito, denunciabile in cassazione solo se motivato in modo insufficiente o contraddittorio e ciò non ricorre nella specie) la funzione a cui l’immobile è destinato. E se, come è certo, la funzione dell’immobile – casa è, tra le altre, precipuamente quella di offrire a chi vi abita un riparo dalle intemperie, la penetrazione dell’acqua piovana al suo interno dal tetto o dal terrazzo di copertura non si vede come non debba ricomprendersi tra i difetti gravi contemplati dall’art. 1669”. (Cassazione Civile Sentenza n. 2431/1986 del 8 aprile 1986);
  • Canna fumaria dell’impianto centrale di riscaldamento del fabbricato affetta da gravi vizi costruttivi. “Per la giurisprudenza di questa Suprema Corte i gravi difetti dai quali deriva la responsabilità prevista dall’art. 1669 c.c. sono non soltanto quelli incidenti sulla struttura e funzionalità del fabbricato, ma anche i vizi costruttivi che alterano, in modo apprezzabile, il normale godimento dell’immobile o impediscono che questo fornisca le utilità cui esso è destinato (sent. nn. 4536 del 1980 3842 e 3971 del 1981 e 4369 del 1982). Nel caso concreto la Corte di Appello si è uniformata a questo indirizzo, in quanto, accertato, con incensurabile apprezzamento di fatto, che la canna fumaria dell’impianto centrale di riscaldamento del fabbricato era affetta da gravi vizi costruttivi, che avevano addirittura indotto il Sindaco del Comune di Omissis a disporre la demolizione per eliminare il pericolo di crollo, ha correttamente ravvisato l’ipotesi di responsabilità configurata dall’art. 1669 c.c., osservando che il dissesto della canna fumaria, incidendo sull’intero impianto di riscaldamento, aveva impedito il normale godimento dell’immobile, di cui l’impianto medesimo costituiva parte integrante”. (Cassazione Civile Sentenza n. 2763/1984 del 7 maggio 1984);
  • Difetto di costruzione del tubo di adduzione con conseguenti infiltrazioni di acqua fuoriuscente dal tubo che hanno interessato vani terreni e seminterrati dell’edificio ed avrebbero potuto pregiudicare il normale godimento di parti di proprietà comuni. “Questa Corte in numerose decisioni (tra le quali: Cass. 11.1.1979, n. 206 e 8.7.80 n. 4356, citate in motivazione della sentenza impugnata 18.6.1981 n. 3971, 30.7.1982 n. 4369) ha affermato che l’estremo del “grave difetto di costruzione” a differenza di quella che determinano rovina di tutte o parte dell’edificio o pericolo di rovina di esso, può consistere in una qualsiasi alterazione che, pur riguardando direttamente una parte dell’opera incida sulla funzionalità globale dell’opera stessa, menoma none sensibilmente il godimento.  Orbene il Tribunale, si è attenuto ai suesposti principi rilevando con congrua e logica motivazione, (avverso la quale non è stata formulata alcuna censura di insufficienza o contraddittorietà), che era emersa attraverso le indagini tecniche, la prova del difetto di costruzione del tubo di adduzione, che le infiltrazioni di acqua fuoriuscente dal tubo a causa della difettosa costruzione, avevano interessato vani terreni e seminterrati dell’edificio ed avrebbero potuto pregiudicare il normale godimento di parti di proprietà comune, se il condominio, dopo aver inutilmente invitato i venditori – costruttori a provvedere, non avesse eseguito a proprie spese le necessarie sostituzioni e riparazioni”. (Cassazione Civile Sentenza n. 6741/1983 del 12 novembre 1983); 
  • Difetti di costruzione del lastrico solare e di posa in opere, del manto impermeabile d’asfalto. “Anche tali censure sono infondate, poiché, la Corte di Lecce, alla quale peraltro non era stato proposto un motivo d’appello rivolto specificamente a contestare la gravità dei difetti, ha esaminato ampiamente, in relazione ad altre doglianze, la consistenza e l’origine dei danni lamentati dai Omissis., precisando che le macchie di umidità erano particolarmente estese in alcune zone, che avevano creato una situazione di disagio non tollerabile a lungo, che dipendevano dai difetti di costruzione del lastrico solare e di posa in opere, del manto impermeabile d’asfalto, analiticamente elencati dal C.T.U. La Corte d’Appello ha, pertanto, chiaramente accertato l’esistenza dei gravi difetti di costruzione, rilevanti ai sensi dell’art. 1669 c.c., che consistono in tutte le alterazioni che incidono sulla struttura e funzionalità dell’opera o che costituiscono vizi che menomano apprezzabilmente il godimento dell’opera medesima, impedendo che essa fornisca, a chi deve usarne, la normale utilità a cui è destinata (Cass. 8.7.1980 n. 4356, relativa al caso specifico di infiltrazione d’acqua dai lastrici solari negli appartamenti ad essi sottostanti)”. (Cassazione Civile Sentenza n. 2858/1983 del 26 aprile 1983);
  • Sconnessioni nei collegamenti delle strutture in cemento armato; che nei suoi lati la costruzione presenta strapiombi, che la stessa venne eretta su terreno ricco di falde idriche senza alcuna necessaria preventiva bonifica. “Ai fini della garanzia prevista dall’art. 1669 c.c., sono gravi difetti della costruzione quelli che, pur non rappresentando pericolo di rovina, incidono profondamente sugli elementi essenziali dell’opera, compromettendone la conservazione nel tempo e menomandone in modo apprezzabile le condizioni di godimento. È accertato e pacifico in atti che l’edificio venne costruito dagli attuali ricorrenti; che si sono verificate sconnessioni nei collegamenti delle strutture in cemento armato; che nei suoi lati la costruzione presenta strapiombi, che la stessa venne eretta su terreno ricco di falde idriche senza alcuna necessaria preventiva bonifica” (Cassazione Civile Sentenza n. 3184/1982 del 25 maggio1982);
  • Vizio del suolo, che determina un vizio o un difetto dell’immobile costruito. “Risulta, quindi, corretto il principio cui si è ispirata la sentenza impugnata, secondo cui – in generale – il vizio del suolo, che determina un vizio o un difetto dell’immobile costruito, rientra nell’ambito della responsabilità dell’appaltatore e non importa, di per sè, alcuna responsabilità del progettista o del committente”. (Cassazione Civile Sentenza n. 1943/1976 del 14magio 1977).
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La valutazione dei rischi da fulminazione diretta ed indiretta in condominio

Per delineare la perimetrazione degli obblighi legati alla verifica dei rischi da fulminazione (ovviamente da un punto di vista giuridico non essendo il presente breve contributo relativo alle questioni di tipo tecnico) dobbiamo partire da alcuni concetti base e passare poi ai dati normativi per poi trarre le necessarie conclusioni.

Il primo concetto che deve essere analizzato è quello della “posizione di garanzia” rivestita proprio dall’amministratore di condominio.

AMMINISTRATORE E POSIZIONE DI GARANZIA
Il rapporto che lega l’amministratore di condominio dal condominio dallo stesso amministrato è certamente il mandato, lo ha detto, a più riprese, la giurisprudenza prima della legge 220/2012 e proprio con la riforma del condominio è stato novellato l’art. 1129 c.c.  che prevede, tra le altre cose, che “Per quanto non disciplinato dal presente articolo si applicano le disposizioni di cui alla sezione I del capo IX del titolo III del libro IV”, e, quindi, il mandato appunto.
Trattasi però di mandato del tutto particolare perché l’oggetto è predeterminato dalla legge (Codice Civile in primis e dalle legge speciali) e può, financo, trovare ulteriore sua rimodulazione nel regolamento di condominio ovvero in una delibera assembleare (cfr art. 1131 c.c. “Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi”).
E’ ormai fatto noto che l’amministratore una volta nominato amministratore del condomino (ed abbia accettato il mandato ad amministrare, rivesta una specifica posizione di garanzia.
Sul punto si vedano a tiolo meramente esemplificativo e non esaustivo 
Cass. pen., Sez. IV, 23/10/2015, n. 46385
“l’amministratore del condominio riveste una specifica posizione di garanzia, su di lui gravando l’obbligo ex art. 40 cpv. c.p., di attivarsi al fine di rimuovere, nel caso di specie, la situazione di pericolo per l’incolumità del terzi, integrata nel caso di specie dalla vetustà del rivestimento dell’edificio condominiale tale da provocare la caduta di calcinacci e parti di rivestimento, fonte di pericolo per i passanti, così come accaduto all’odierna persona offesa”.
Cass. pen., Sez. IV, Sentenza, 12/01/2012, n. 34147 (rv. 254971)
“Non può quindi mettersi in discussione che l’amministratore del condominio rivesta una specifica posizione di garanzia, su di lui gravando l’obbligo ex art. 40 cpv. c.p., di attivarsi al fine di rimuovere, nel caso di specie, la situazione di pericolo per l’incolumità del terzi, integrata dagli accertati avvallamenti / sconnessioni della pavimentazione in prossimità del tombino predisposto ai fini dell’esercizio di fatto detta servitù di scolo delle acque meteoriche a vantaggio del condominio, ciò costituendo una vera e propria insidia o trabocchetto, fonte di pericolo per i passanti ed inevitabile con l’impiego della normale diligenza; massime per una persona anziana di 75 anni di età ( cfr.Sez. 3 n.4676 del 1975 rv. 133249)”.

APPLICABILITÀ DEL D.LGS 81/2008 (TESTO UNICO SULLA SICUREZZA) AL CONDOMINIO
Sull’applicabilità del Testo Unico sulla sicurezza (D.lgs 81/2008) in ambito di condominio troviamo conforto non solo nella dottrina, ma anche nella giurisprudenza, Infatti,
Cass. pen., Sez. feriale, Sentenza, 27/08/2019, n. 45316 (rv. 277292-01)
In riferimento al concetto di luogo di lavoro ha statuito: Viceversa, ai fini dell’applicazione di tale norma generale, ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di “luogo di lavoro”, a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro oppure che esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro (cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, dep. 2014, S., Rv. 258435; Sez. 4, n. 28780 del 19/5/2011, Tessari, Rv. 250760; Sez. 4, n. 40721 del 9/9/2015, Steinwurzel, Rv. 26471501), potendo, dunque, rientrarvi ogni luogo in cui viene svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro, indipendentemente dalle finalità della struttura in cui essa si svolge e dell’accesso ad essa da parte di terzi estranei all’attività lavorativa (cfr. Sez. 4, n. 2343 del 27/11/2013, S., Rv. 258435; Sez. 4, n. 12223 del 3/2/2015, dep. 2016, Del Mastro, Rv. 266385).
Cass. pen., Sez. III, 18/09/2013, n. 42347
L’amministratore di un condominio assume “la posizione di garanzia propria del datore di lavoro nel caso in cui proceda direttamente all’organizzazione e direzione di lavori da eseguirsi nell’interesse del condominio stesso ma, in caso di affidamento in appalto di dette opere, tale evenienza non lo esonera completamente da qualsivoglia obbligo, ben potendo egli assumere, in determinate circostanze, la posizione di committente ed essere, come tale, tenuto quanto meno all’osservanza di ciò che è stabilito dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26”.
Cass. pen., Sez. IV, 05/05/2011, n. 22239
L’amministratore di condominio è responsabile, in qualità di datore di lavoro ai sensi del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, per il decesso dell’addetto alle pulizie precipitato nella tromba delle scale durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, a causa del mancato adeguamento dei parapetti alla normativa antinfortunistica.

Orbene l’art. 2 del d.lgs 81/2088 definisce lavoratore: “persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari.  Omissis”

Vieppiù citando la giurisprudenza espressamente l’art. 26 del d.lgs 81/2008 occorre verificarne il contenuto. 
Lo stesso, recita testualmente:
“1.    Il datore di lavoro, in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima, sempre che abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo:106
a)  verifica, con le modalità previste dal decreto di cui all’articolo 6, comma 8, lettera g), l’idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori, ai servizi e alle forniture da affidare in appalto o mediante contratto d’opera o di somministrazione. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al periodo che precede, la verifica è eseguita attraverso le seguenti modalità:
1)  acquisizione del certificato di iscrizione alla camera di commercio, industria e artigianato;
2)  acquisizione dell’autocertificazione dell’impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico-professionale, ai sensi dell’articolo 47 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica del 28 dicembre 2000, n. 445;107
b)  fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività.
2.   Omissis”
Quindi, è la norma in parola che prevede un obbligo di fornire informazioni “dettagliate” sui rischi esistenti.

Dobbiamo, inoltre, precisare come le predette norme devono essere lette unitamente all’art. 80 del d-lgs 81/2008 che prevede che:
“1.    Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché i lavoratori siano salvaguardati da tutti i rischi di natura elettrica connessi all’impiego dei materiali, delle apparecchiature e degli impianti elettrici messi a loro disposizione ed, in particolare, da quelli derivanti da:
a)  contatti elettrici diretti;
b)  contatti elettrici indiretti;
c)  innesco e propagazione di incendi e di ustioni dovuti a sovratemperature pericolose, archi elettrici e radiazioni;
d)  innesco di esplosioni;
e)  fulminazione diretta ed indiretta;
f)  sovratensioni;
g)  altre condizioni di guasto ragionevolmente prevedibili.
2.    A tale fine il datore di lavoro esegue una valutazione dei rischi di cui al precedente comma 1, tenendo in considerazione:
a)  le condizioni e le caratteristiche specifiche del lavoro, ivi comprese eventuali interferenze;
b)  i rischi presenti nell’ambiente di lavoro;
c)  tutte le condizioni di esercizio prevedibili.
3.    A seguito della valutazione del rischio elettrico il datore di lavoro adotta le misure tecniche ed organizzative necessarie ad eliminare o ridurre al minimo i rischi presenti, ad individuare i dispositivi di protezione collettivi ed individuali necessari alla conduzione in sicurezza del lavoro ed a predisporre le procedure di uso e manutenzione atte a garantire nel tempo la permanenza del livello di sicurezza raggiunto con l’adozione delle misure di cui al comma 1.
3-bis.    Il datore di lavoro prende, altresì, le misure necessarie affinché le procedure di uso e manutenzione di cui al comma 3 siano predisposte ed attuate tenendo conto delle disposizioni legislative vigenti, delle indicazioni contenute nei manuali d’uso e manutenzione delle apparecchiature ricadenti nelle direttive specifiche di prodotto e di quelle indicate nelle pertinenti norme tecniche”.

Da ultimo l’art. 84 del d.lgs 81/2008 prevede che: “Il datore di lavoro provvede affinché gli edifici, gli impianti, le strutture, le attrezzature, siano protetti dagli effetti dei fulmini realizzati secondo le norme tecniche”.

E’ di tutta evidenza come, in relazione alla valutazione dei rischi da fulminazione – necessaria per poi dare le relative e corrette informative – la stessa sia obbligatoria in alcuni casi (es. quando ci sono dipendenti in condominio; quando vi è un impianto fotovoltaico -installato su un edificio; edifici soggetti a CPI – certificato prevenzione incendi) e negli altri casi, quand’anche sembri, a prima vista, non esservi un obbligo di legge, la necessità dello stesso deriva dal combinato disposto delle norme sopra citate e soprattutto dalla Giurisprudenza – sempre sopra citata – che non lascerebbero all’amministratore troppi margini di manovra e, quindi, diventa, di fatto, se non obbligatoria, quanto meno, “vivamente” consigliata al fine di non correre e di  non far rischi. 

CategoriesSentenze Civili

CASSAZIONE CIVILE SENTENZA N. 12919/2023 DEL 11 MAGGIO 2023

Art. 1117 c.c. – Parti comuni 

Il primo motivo del ricorso incidentale è infondato, essendo la decisione impugnata conforme al principio che l’individuazione delle parti comuni, risultanti dall’art. 1117 c.c., non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (Cass. n. 24189/2021).


SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. Omissis R.G. proposto da:
YYYYY, nella qualità di procuratrice generale di YYYYY , elettivamente domiciliate in Omissis, presso lo studio dell’avv. Omissis, che le rappresenta e difende unitamente all’avv. Omissis –
Ricorrente
BBBBB, elettivamente domiciliati in Omissis, presso lo studio legale associato Omissis, rappresentati e difesi dall’avv. Omissis
-controricorrenti – ricorrenti incidentali
CCCCC, elettivamente domiciliato in Omissis, presso lo studio dell’avv. Omissis, che la rappresenta e difende
-controricorrente
Condominio XXXXX, elettivamente domiciliato in Omissis, presso lo studio dell’avv. Omissis, che lo rappresenta e difende
-controricorrente
GGGGG 
-intimati 
avverso Sentenza della Corte d’appello di Roma n. 112/2016 depositata l’11/01/2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24/01/2023 dal Consigliere Omissis;
viste le conclusioni motivate, ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, formulate dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Omissis, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso principale, il rigetto del primo motivo del ricorso incidentale e l’accoglimento del secondo motivo del ricorso incidentale; 
uditi gli avv.ti. Omissis per i ricorrenti, Omissis per i ricorrenti incidentali, Omissis per il Condominio XXXXX e Omissis per CCCCC.


FATTI DI CAUSA


Con atto del 25 gennaio 1922, è stato venduto un casamento di nuova costruzione composto da tre distinti corpi di fabbrica in Omissis. La Banca Omissis ha acquistato i locali terreni aventi accesso da via Omissis unitamente ai locali interrati. L’appartamento identificato con il numero di interno Omissis nell’edificio di via Omissis fu acquistato da Omissis; l’appartamento interno 6 fu acquistato da Omissis. La Omissis acquistò le ulteriori porzioni immobiliari oggetto della vendita.
Fece seguito il disciplinare per l’uso e la conservazione degli spazi comuni dell’edificio di via Omissis, attribuiti ai soli proprietari di appartamenti; gli spazi comuni furono così identificati: a) locali al piano terreno destinati al portiere; b) il portico o andito di ingresso; c) i corridoi delle cantine, i locali ad uso bucatoio e il terrazzo di copertura, per la parte riservata a uso comune (la residua parte del terrazzo era assegnata ai tre condomini dell’edificio, quale accessorio dei rispettivi appartamenti).
Si può dare per acquisito che il posto della Omissis fu poi preso dai componenti della famiglia GGGGG (d’ora in poi identificati come “Omissis”), ai quali può essere attribuito la proprietà originaria delle rimanenti unità immobiliari ubicate nell’edificio di via Omissis, ad eccezione degli interni n. 5 e n. 6, e dell’intero edificio di via Omissis.
In forza di vicende traslative intervenute nel corso del tempo, gli attuali proprietari delle unità immobiliari comprese nell’edificio di via Omissis sono le parti dell’odierno giudizio.
È adiacente al condominio di via Omissis l’edificio con ingresso da via Omissis, di proprietà attualmente di CCCCC, GGGGG al cui interno si svolge l’attività alberghiera sotto l’insegna Omissis, gestito dalla Omissis.
La causa, nella quale è intervenuto il condominio di via Omissis, è stata iniziata da alcuni dei condomini di tale edificio al fine di far riconoscere la natura condominiale di alcune porzioni del medesimo. Gli attori hanno denunciato che tali porzioni erano state oggetto di modifiche realizzate dai GGGGG, con il fine di collegarle e asservirle al confinante edificio di via Omissis, che ospita l’ Omissis. Costituivano oggetto della pretesa, per quanto interessa in questa sede, il corridoio per l’accesso alle cantine, i locali ad uso bucatoio siti nel piano interrato, l’ex alloggio del portiere ubicato al piano terra, la porzione di terrazza. 
I GGGGG. (nei cui confronti fu proposta la domanda) hanno invece sostenuto che la situazione, derivante dall’atto del 1922 e dal conseguente disciplinare, era stata modificata a seguito di atti di disposizioni successivi, culminati con l’adozione di un nuovo regolamento condominiale nel 1957.
Il giudice di primo grado, disposta l’integrazione del contraddittorio, ha accolto la domanda, accertando la natura condominiale di tutte le porzioni oggetto della stessa e ordinando i consequenziali ripristini e rilasci.
La Corte d’appello ha riformato in parte la sentenza, escludendo la natura condominiale del corridoio di accesso alle cantine site al piano interrato nel lato del fabbricato confinante con l’edificio di via Ludovisi. In quanto al resto ha condiviso la valutazione del tribunale, anche per quanto riguarda il rigetto della domanda riconvenzionale di usucapione, riproposta in appello dalla CCCCC e dai GGGGG. In via preliminare, la Corte d’appello ha riconosciuto che l’edificio di via Omissis e l’edificio di via Omissis sono condominii distinti.
Per la cassazione della decisione YYYYY, nella qualità di procuratrice di Omissis, e la Omissis hanno proposto ricorso affidato a quattro motivi.
BBBBB hanno resistito con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato a due motivi, a sua volta resistito con controricorso dai ricorrenti principali.
Ha depositato controricorso anche il Condominio XXXXX, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento del ricorso incidentale. 
CCCCC ha resistito con controricorso al ricorso incidentale.
GGGGG restano intimati.
La causa, originariamente fissata per l’udienza camerale del 16 febbraio 2022, in vista della quale hanno depositato memorie CCCCC, il Condominio XXXXX  e i ricorrenti incidentali, è stata poi chiamata all’udienza del 14 giugno 2022 e in relazione a tale udienza hanno depositato memoria i ricorrenti incidentali e la ricorrente principale YYYYY. Con ordinanza di pari data la causa è stata rimessa per la discussione in pubblica udienza. In vista di tale udienza il Condominio e i ricorrenti incidentali hanno depositato ulteriori memorie.


RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. I ricorrenti principali hanno fatto presente che è pendente dinanzi alla Corte d’appello di Roma giudizio di revocazione promosso contro la sentenza impugnata. Sulla base di tale circostanza è stata chiesta la sospensione del presente giudizio.
    L’istanza deve essere disattesa. La pendenza del ricorso per revocazione non costituisce motivo di improcedibilità del ricorso per cassazione, né, ove già iniziato, sospende il relativo giudizio, salvo che la sospensione venga disposta, su istanza del ricorrente, dal giudice a quo, ai sensi dell’art. 398, 4° comma, c.p.c. (Cass. n. 31920/2018; n. 11413/2010).
  2. Si può anticipare che, in questa sede di legittimità, si ripropone la medesima contrapposizione che ha caratterizzato il giudizio di merito. Da una parte, i proprietari attuali delle unità immobiliari distinte con i numeri 3, 4, 5, 7 e 8 nel condominio di via Omissis, che rivendicano la natura condominiale di alcune delle porzioni dell’edificio; dall’altra, i proprietari delle altre unità immobiliari, CCCCC, GGGGG e la Omissis, che gestisce l’ Omissis nell’adiacente edificio di via Omissis, le quali hanno sostenuto che le porzioni oggetto di causa sono di proprietà esclusiva dei GGGGG. Tale posizione è stata assunta in appello anche da Omissis, rimasta intimata nel presente giudizio.
    In questa sede, del complesso contenuto della sentenza d’appello, è in discussione la sola questione dell’appartenenza al condominio delle porzioni di cui sopra (il corridoio per l’accesso alle cantine, i locali ad uso bucatoio siti nel piano interrato, l’ex alloggio del portiere ubicato al piano terra, la porzione di terrazza).
    È stato anticipato che la sentenza d’appello ha riformato in parte la decisione di primo grado, che aveva riconosciuto la natura condominiale di tutte le porzioni in contestazione. Il giudice d’appello ha riformata la decisione solo relativamente a una delle porzioni già ritenute comuni dal Tribunale.
    La decisione d’appello, nella parte in cui ha riformato quella del Tribunale, è oggetto del ricorso incidentale, mentre nel suo contenuto di conferma della decisione di primo grado è oggetto del ricorso principale.
  3. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1117 c.c.
    Le ricorrenti richiamano l’atto del 1922 e il coevo regolamento condominiale che indicava gli spazi comuni ai soli proprietari degli appartamenti. Quindi deducono che la situazione proprietaria, relativa agli spazi comuni, era stata modificata da atti successivi, che sono analiticamente riportati nel ricorso. A consuntivo delle modificazioni realizzate da tali atti, l’assemblea straordinaria condominiale approvava il nuovo regolamento di condominio, che individuava le parti comuni in conformità al nuovo assetto. Si precisa ancora con il motivo che l’alloggio del portiere è stato trasferito nei locali al primo piano, interno n. 2 di proprietà GGGGG.
    Secondo le ricorrenti gli atti di cui sopra, considerati nel loro insieme, costituivano titolo contrario idoneo a vincere la presunzione di cui all’art. 1117 c.c. relativamente a tutte le porzioni oggetto della pretesa di controparte e non solo nei limiti riconosciuti dalla sentenza impugnata; e seppure in ipotesi i medesimi atti non fossero stati idonei a trasferire la proprietà, essi rendevano palese la volontà dei condomini di sottrarre quelle porzioni al vincolo condominiale. Del resto, continuano sempre le ricorrenti, tutta l’area della terrazza, l’appartamento del portiere e l’ex bucatoio entrarono da subito nel possesso esclusivo della famiglia GGGGG e furono sottratti materialmente, tramite mura, recinzione e cancelli, a qualsiasi destinazione condominiale. La perdita dell’attitudine all’uso condominiale comporta il venir meno della presunzione di cui all’art. 1117 c.c.
    Le ricorrenti hanno cura di censurare l’ulteriore affermazione della Corte d’appello, laddove si afferma che l’originaria proprietaria dell’appartamento interno n. 6 aveva ceduto la cantina e non anche i diritti condominiali sul locale bucatoio e sul relativo corridoio di accesso, né i diritti sull’alloggio del portiere sito al piano terra e nemmeno avrebbe ceduto i diritti attinenti alla corte comune. Al riguardo si rappresenta che è stato poi scoperto, dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, un atto del 1949, con il quale Omissis aveva venduto ai GGGGG la propria parte di proprietà esclusiva del lastrico solare con i diritti condominiali correlati. I ricorrenti precisano che sulla base di tale ritrovamento hanno notificato atto di citazione per la revocazione della sentenza. 
    Il secondo motivo del ricorso principale è così rubricato “violazione e falsa applicazione degli artt. 1142, 1143, 1159 e 1159 c.c. (con riferimento alla sentenza di primo grado), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – Violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c. e 2697 c.c. (con riferimento alla sentenza di primo grado), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, (motivazione omessa o apparente) ex art. 360, n. 5, c.p.c.”
    Con il motivo le ricorrenti sostengono che avevano censurato in modo analitico la decisione del giudice di primo grado, che aveva negato l’esistenza del possesso ventennale, rimproverando al Tribunale di non avere considerato i documenti e di avere malamente valutato le prove per testi, aprioristicamente svalutando le deposizioni favorevoli alla loro tesi. Nonostante la molteplicità e analiticità delle contestazioni, la Corte d’appello ha esaurito la propria analisi tramite il richiamo di principi di giurisprudenza sui requisiti richiesti per l’usucapione del comproprietario.
    Il terzo motivo del ricorso principale denuncia “violazione dell’art. 116 c.p.c. sotto il profilo del prudente apprezzamento della prova – Nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.”
    Le incongruenze nella ricostruzione dei fatti sarebbero tali e tante da rendere evidente la violazione del principio secondo cui il giudice di merito deve valutare le prove “secondo il suo prudente apprezzamento”.
    Il quarto motivo del ricorso principale denuncia la nullità della sentenza per mancanza del dispositivo, non essendo riportata la disposizione finale sulla domanda dei ricorrenti in ordine alla proprietà del lastrico solare.
  4. Il primo motivo è infondato. La decisione impugnata, in relazione ai locali in contesa, ha riconosciuto, in esito all’esame degli atti invocati dalle ricorrenti, che i GGGGG non avevano acquistato la totalità dei millesimi di proprietà delle parti comuni oggetto di causa dell’edificio di via Omissis, essendo irrilevante, in mancanza di un idoneo atto di trasferimento, la riduzione della superfice di terrazza destinata a bene comune, avvenuta fra il primo e il secondo regolamento condominiale.
    Identico ragionamento la Corte d’appello ha proposto per l’alloggio del portiere. In proposito la Corte ha aggiunto che il trasferimento dell’alloggio in altra unità, di proprietà dei GGGGG, non ha inciso sulla originaria contitolarità della porzione, se è vero che in uno degli atti di trasferimento si prevedeva un atto di permuta, che non è stato poi stipulato. 
    In rapporto a tali considerazioni le ricorrenti lamentano che la Corte d’appello non avrebbe considerato la pluralità dei trasferimenti, per effetto dei quali i diritti condominiali sulle originarie parti comuni sarebbero stati acquistati solo da alcuni dei condomini, che ne sarebbero divenuti pertanto proprietari esclusivi; e seppure quegli stessi atti non fossero stati idonei a concentrare la proprietà in capo solo ai cessionari dei diritti condominiali, essi dimostravano la volontà dei condomini di sottrarre quelle porzioni all’uso comune, come poi di fatto avvenuto.
  5. Così identificato il significato della complessa censura, la prima osservazione da fare riguarda l’improprio riferimento alla norma dell’art. 1117 c.c., posto che questa norma risolve il diverso problema della comune appartenenza con riferimento al momento di insorgenza del condominio per effetto del frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali. Nel caso in esame, come si evince chiaramente dalla esposizione della censura, non è in discussione l’originaria appartenenza comune delle porzioni in contesa, ma l’assunto delle ricorrenti che la comune appartenenza era venuta meno a seguito di più atti di disposizione dei diritti condominiali da parte dei singoli titolari.
    Tale assunto è stato esaminato dalla Corte d’appello, la quale, pur non negando la validità e l’efficacia dei trasferimenti in linea di principio, ha riconosciuto che le alienazioni non furono integrali, nel senso che persisteva il diritto condominiale di condomini diversi dai GGGGG. Tale conclusione, la quale suppone la ricostruzione e l’interpretazione dei titoli, costituisce un apprezzamento di merito incensurabile in questa sede. Si innesta qui la seconda delle censure proposte con il motivo ora in esame: seppure i titoli avessero lasciato persistere la proprietà condominiale, ugualmente la sequenza degli atti, recepiti dal nuovo regolamento condominiale, evidenziava una comune volontà di sottrarre le porzioni oggetto del trasferimento all’uso condominiale. È importante sottolineare che anche tale ulteriore censura non nega l’ originaria proprietà comune delle porzioni, ma solleva un problema diverso, che anzi suppone quella comune appartenenza. Si tratta invero di stabilire attraverso quali strumenti sia attuabile la sottrazione di una porzione originariamente comune al pari diritto dei condomini. In questo caso, la pretesa delle ricorrenti deve fare i conti con principio per il quale, ai fini dell’esclusiva appropriazione e definitiva sottrazione di una parte comune alle possibilità di godimento collettivo, occorre il consenso negoziale (espresso in forma scritta ad substantiam) di tutti i condomini (Cass. n. 26737/2008; n. 5125/1993; n. 8012/2012). In base alla ricostruzione dei titoli operata dalla Corte di merito, tale consenso non è stato espresso, non potendo supplire a questi effetti, il regolamento di condominio, “in mancanza di un idoneo atto di trasferimento” (pag. 14 della sentenza impugnata).
    Su tutti questo aspetti, pertanto, la sentenza impugnata è in linea con consolidati principi di giurisprudenza essendo pertanto esente dalle censure mosse dalle ricorrenti. Lo stesso dicasi per quanto riguarda l’alloggio del portiere, essendo la soluzione proposta dalla Corte d’appello conforme al principio secondo cui, qualora l’alloggio non sia più destinato all’uso condominiale, si determinano conseguenze diverse, che lasciano tuttavia ferma la comune titolarità di tutti i condomini (Cass. n. 35957/2021).
    Tutte le censure formulate con il primo motivo sono, dunque, infondate.
    In quanto all’ulteriore contratto, scoperto in un secondo tempo, che avrebbe comprovato l’acquisto da parte dei GGGGG della totalità dei diritti condominiali sul terrazzo condominiale, la deduzione dei ricorrenti è nuova, con conseguente inammissibilità, per questa parte, del motivo; ciò, in quanto i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, di modo che è preclusa la proposizione di doglianze che, modificando la precedente impostazione, pongano a fondamento delle domande e delle eccezioni titoli diversi o introducano, comunque, piste ricostruttive fondate su elementi di fatto nuovi e difformi da quelli allegati nelle precedenti fasi processuali (Cass. n. 6989/2004). Quanto alla pendenza del giudizio di revocazione, intrapreso a seguito della scoperta di tale atto, la deduzione è stata già sopra esaminata e non occorre aggiungere altro.
  6. Il secondo motivo del ricorso principale è inammissibile, sotto tutti i possibili profili enunciati nella rubrica. Invero, sotto l’egida della violazione di norme e principi di diritto, è oggetto di censura il giudizio di fatto espresso dalla Corte di merito, che non è censurabile in cassazione se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. Da questo punto di vista le ricorrenti, seppure richiamino nella rubrica anche il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., non deducono alcun omesso esame nel significato chiarito da questa Corte (Cass., sez. un., n. 8053/2014), ma propongono una critica globale della decisione, che palesa il loro intento di ripetere un giudizio sul merito, qui non ripetibile. Nemmeno sussiste il vizio motivazionale adombrato con la rubrica del motivo. La Corte d’appello ha condiviso la valutazione del primo giudice, evidenziando come la stessa fosse fondata sugli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità in materia di usucapione di beni comuni; essa ha aggiunto che, in rapporto a questi insegnamenti, non è stata fornita alcuna prova idonea a dimostrare la sussistenza dei requisiti richiesti per fondare il possesso del condomino utile per l’usucapione. Tale valutazione, esente da errori logici e giuridici, è incensurabile in questa sede.
  7. Il terzo motivo del ricorso principale è inammissibile, già nella sua formulazione. È stato precisato al riguardo (cfr. Cass. 19 gennaio 2021, n. 825; Cass. 3 novembre 2020, n. 24395; ed altre) che una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può avere ad oggetto l’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo il fatto che questi abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, o abbia considerato come facenti piena prova recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione, restando conseguentemente escluso che il vizio possa concretarsi nella censura di apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti o, in più in generale, nella denuncia di un cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali: il che è esattamente ciò che pretendono le ricorrenti, per le quali la ragione di nullità della sentenza è fatta coincidere con l’esito del giudizio diverso da quello da esse auspicato.
  8. Il quarto motivo del ricorso principale è infondato. La Corte d’appello ha esaminato la questione in motivazione, in guisa da rendere la mancata menzione del lastrico solare nel dispositivo una mera omissione, priva di conseguenze sulla validità della sentenza, non sussistendo alcuna incertezza sul reale significato della decisione, essendo pertanto il contrasto e l’omissione solo apparenti (Cass. n. 15088/2015).
  9. Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione degli artt. 1117 e 1118, comma 2, c.c..
    La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui, relativamente ai corridoi di accesso alle cantine, ha riconosciuto l’efficacia delle cessioni dei diritti condominiali, operati con gli atti di cui sopra, senza la contestuale cessione delle unità immobiliari a cui le cantine afferiscono.
    Il secondo motivo denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
    La Corte d’appello, nel riconoscere la proprietà dei GGGGG del corridoio di accesso alle cantine site al piano interrato nel lato del fabbricato confinante con l’edificio di via Ludovisi, in via riflessa rispetto alla proprietà di tutte le cantine che si affacciano su di esso, non ha considerato che le cantine appartenevano ai GGGGG in qualità di condomini dell’edificio di via Omissis, non quali proprietari dell’edificio di via Ludovisi.
    Quindi la Corte d’appello non avrebbe potuto legittimare l’apertura del varco creato a livello del pian terreno.
  10. Il primo motivo del ricorso incidentale è infondato, essendo la decisione impugnata conforme al principio che l’individuazione delle parti comuni, risultanti dall’art. 1117 c.c., non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (Cass. n. 24189/2021).
    Come si evince dalla ricostruzione in fatto operata con la sentenza impugnata, il corridoio in questione serviva solo a consentire l’accesso alle cantine poste in quella parte dell’edificio, essendo le cantine rimaste di proprietà della Omissis ubicate allo stesso piano, ma posizionate in un’altra porzione dell’edificio, prospiciente la scala principale, del tutto distinta e non comunicante con quella dove è ubicato il corridoio. Consegue che la decisione impugnata, laddove ha negato che i condomini proprietari di porzioni ubicate in altro settore dell’edificio avessero diritti condominiali sul corridoio, va esente dalle censure mosse dai controricorrenti.
  11. È infondato anche il secondo motivo del ricorso incidentale.
    Si deve rilevare al riguardo che il fatto, consistente nelle modifiche apportato al livello del piano dove sono ubicate le cantine è stato considerato dalla Corte d’appello, per cui l’omissione, in linea di principio, non sussiste (Cass., S.U., n. 8053/2014). A ciò si deve aggiungere che i ricorrenti incidentali non chiariscono, con la dovuta specificità, il “come e il quando “ il fatto fu discusso e dibattuto nei termini indicati nel motivo (Cass., S.U., n. 8053/2014; n. 19987/2017; n. 29954/2022): e cioè che il riconoscimento della proprietà esclusiva delle cantine e del corridoio di accesso alle stesse lasciava persistere la natura condominiale del muro perimetrale dell’edificio anche a quel livello di piano. Invero, nella logica seguita con il ricorso incidentale, l’esistenza del “fatto” dovrebbe risultare indirettamente dalle considerazioni della sentenza impugnata, con le quali la corte territoriale riconosce, risolvendo il contrasto fra le parti sul punto, che l’edificio di via Veneto 84 costituisce un complesso autonomo e distinto rispetto all’attiguo Omissis, essendo quindi contraddittoria la motivazione della stessa sentenza. Con tali rilievi, però, sembra abbandonato il vizio di omesso esame e si fa subentrare quello di motivazione contraddittoria. Si dimentica però che la contraddittorietà motivazionale censurabile in cassazione, dopo la modifica dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., operata con la riforma del 2012, è solo quella che si traduce nella violazione dell’art. 132, n.4 c.p.c., che non consiste semplicemente nella decisione incoerente o contenente un percorso logico non condiviso, ma nella ineliminabile contraddittorietà tra affermazioni inconciliabili, tale da condurre ad una completa incomprensibilità della decisione. Che non è affatto il vizio nella specie riscontrabile.
  12. In conclusione, debbono essere rigettati sia il ricorso principale, sia il ricorso incidentale. L’esito del giudizio giustifica la compensazione delle spese fra tutte le parti. Nulla va disposto in ordine al governo delle spese nei confronti degli intimati.
    Ci sono le condizioni per dare atto ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater d.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti principali e incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”.

  13. P.Q.M.

  14. rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; dichiara interamente compensate fra tutte le parti le spese di lite; ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti principali e incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
    Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 24 gennaio 2023.
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Cosa cambia dopo il 30 giugno 2023 per i procedimenti di mediazione instaurati dopo tale data?

–    Avv. Giorgio Galetto –

Il D.Lgs 10 ottobre 2021 n. 149 (pubblicato in data 17 ottobre 2022 nella Gazzetta Ufficiale n. 243) ha introdotto alcune modifiche ed integrazioni al D.lgs 28/2010 che avranno certo rilevanza nel rapporto mediazione – condominio.

Vediamo quali sono.

Le norme codicistiche che subiranno modifiche.

Attualmente l’art. 71 quater disp. att. c.c. recita testualmente:
“Per controversie in materia di condominio, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle presenti disposizioni per l’attuazione del codice.
La domanda di mediazione deve essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato.
Al procedimento è legittimato a partecipare l’amministratore, previa delibera assembleare da assumere con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice.
Se i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera di cui al terzo comma, il mediatore dispone, su istanza del condominio, idonea proroga della prima comparizione.
La proposta di mediazione deve essere approvata dall’assemblea con la maggioranza di cui all’articolo 1136, secondo comma, del codice. Se non si raggiunge la predetta maggioranza, la proposta si deve intendere non accettata.
Il mediatore fissa il termine per la proposta di conciliazione di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, tenendo conto della necessità per l’amministratore di munirsi della delibera assembleare”

Testo con effetto dal 30 giugno 2023 il testo della norma in parola sarà:

Per controversie in materia di condominio, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle disposizioni del libro III, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle presenti disposizioni per l’attuazione del codice.
Al procedimento è legittimato a partecipare l’amministratore secondo quanto previsto dall’articolo 5-ter del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28.

Le modifiche del D.lgs 28/2010

Il nuovo art. 5 bis – Procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo del D.lgs 28/2010 sarà:

Quando l’azione di cui all’articolo 5, comma 1, è stata introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, nel procedimento di opposizione l’onere di presentare la domanda di mediazione grava sulla parte che ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo. Il giudice alla prima udienza provvede sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione se formulate e, accertato il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di mediazione, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. A tale udienza, se la mediazione non è stata esperita, dichiara l’improcedibilità della domanda giudiziale proposta con il ricorso per decreto ingiuntivo, revoca il decreto opposto e provvede sulle spese.

Viene chiarito – definitivamente – che graverà su chi ha richiesto il decreto ingiuntivo l’onere di ottemperare all’esperimento del procedimento di mediazione.

Il nuovo art. 5 ter Legittimazione in mediazione dell’amministratore di condominio del D.lgs 28/2010 sarà:

L’amministratore del condominio è legittimato ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi. Il verbale contenente l’accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore sono sottoposti all’approvazione dell’assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell’accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall’articolo 1136 del codice civile. In caso di mancata approvazione entro tale termine la conciliazione si intende non conclusa.

Il nuovo Art. 5-sexies Mediazione su clausola contrattuale o statutaria del D.lgs 28/2010 sarà:

  1.    Quando il contratto, lo statuto o l’atto costitutivo dell’ente pubblico o privato prevedono una clausola di mediazione, l’esperimento della mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Se il tentativo di conciliazione non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte entro la prima udienza, provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 2. Si applica l’articolo 5, commi 4, 5 e 6.
  2.    La domanda di mediazione è presentata all’organismo indicato dalla clausola se iscritto nel registro ovvero, in mancanza, all’organismo individuato ai sensi dell’articolo 4, comma 1.

Il nuovo Art. 8 Procedimento del D.lgs 28/2010 sarà:

  1.    All’atto della presentazione della domanda di mediazione, il responsabile dell’organismo designa un mediatore e fissa il primo incontro tra le parti, che deve tenersi non prima di venti e non oltre quaranta giorni dal deposito della domanda, salvo diversa concorde indicazione delle parti. La domanda di mediazione, la designazione del mediatore, la sede e l’orario dell’incontro, le modalità di svolgimento della procedura, la data del primo incontro e ogni altra informazione utile sono comunicate alle parti, a cura dell’organismo, con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione. Nelle controversie che richiedono specifiche competenze tecniche, l’organismo può nominare uno o più mediatori ausiliari.
  2.    Dal momento in cui la comunicazione di cui al comma 1 perviene a conoscenza delle parti, la domanda di mediazione produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale e impedisce la decadenza per una sola volta. La parte può a tal fine comunicare all’altra parte la domanda di mediazione già presentata all’organismo di mediazione, fermo l’obbligo dell’organismo di procedere ai sensi del comma 1.
  3.    Il procedimento si svolge senza formalità presso la sede dell’organismo di mediazione o nel luogo indicato dal regolamento di procedura dell’organismo.
  4.    Le parti partecipano personalmente alla procedura di mediazione. In presenza di giustificati motivi, possono delegare un rappresentante a conoscenza dei fatti e munito dei poteri necessari per la composizione della controversia. I soggetti diversi dalle persone fisiche partecipano alla procedura di mediazione avvalendosi di rappresentanti o delegati a conoscenza dei fatti e muniti dei poteri necessari per la composizione della controversia. Ove necessario, il mediatore chiede alle parti di dichiarare i poteri di rappresentanza e ne dà atto a verbale.
  5.    Nei casi previsti dall’articolo 5, comma 1, e quando la mediazione è demandata dal giudice, le parti sono assistite dai rispettivi avvocati.
  6.    Al primo incontro, il mediatore espone la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, e si adopera affinché le parti raggiungano un accordo di conciliazione. Le parti e gli avvocati che le assistono cooperano in buona fede e lealmente al fine di realizzare un effettivo confronto sulle questioni controverse. Del primo incontro è redatto, a cura del mediatore, verbale sottoscritto da tutti i partecipanti.
  7.    Il mediatore può avvalersi di esperti iscritti negli albi dei consulenti presso i tribunali. Il regolamento di procedura dell’organismo deve prevedere le modalità di calcolo e liquidazione dei compensi spettanti agli esperti. Al momento della nomina dell’esperto, le parti possono convenire la producibilità in giudizio della sua relazione, anche in deroga all’articolo 9. In tal caso, la relazione è valutata ai sensi dell’articolo 116, comma primo, del codice di procedura civile.

Il nuovo Art. 11 Conclusione del procedimento del D.lgs 28/2010 sarà:

  1.    Se è raggiunto un accordo di conciliazione, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo. Quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore ne dà atto nel verbale e può formulare una proposta di conciliazione da allegare al verbale. In ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’articolo 13.
  2.    La proposta di conciliazione è formulata e comunicata alle parti per iscritto. Le parti fanno pervenire al mediatore, per iscritto ed entro sette giorni dalla comunicazione o nel maggior termine indicato dal mediatore, l’accettazione o il rifiuto della proposta. In mancanza di risposta nel termine, la proposta si ha per rifiutata. Salvo diverso accordo delle parti, la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento.
  3.    L’accordo di conciliazione contiene l’indicazione del relativo valore.
  4.    Il verbale conclusivo della mediazione, contenente l’eventuale accordo, è sottoscritto dalle parti, dai loro avvocati e dagli altri partecipanti alla procedura nonché dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere e, senza indugio, ne cura il deposito presso la segreteria dell’organismo. Nel verbale il mediatore dà atto della presenza di coloro che hanno partecipato agli incontri e delle parti che, pur regolarmente invitate, sono rimaste assenti.
  5.    Il verbale contenente l’eventuale accordo di conciliazione è redatto in formato digitale o, se in formato analogico, in tanti originali quante sono le parti che partecipano alla mediazione, oltre ad un originale per il deposito presso l’organismo.
  6.    Del verbale contenente l’eventuale accordo depositato presso la segreteria dell’organismo è rilasciata copia alle parti che lo richiedono. E’ fatto obbligo all’organismo di conservare copia degli atti dei procedimenti trattati per almeno un triennio dalla data della loro conclusione.
  7.     Se con l’accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti previsti dall’articolo 2643 del codice civile, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione dell’accordo di conciliazione deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. L’accordo raggiunto, anche a seguito della proposta del mediatore, può prevedere il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza degli obblighi stabiliti ovvero per il ritardo nel loro adempimento.

Il nuovo Art. 12-bis Conseguenze processuali della mancata partecipazione al procedimento di mediazione del D.lgs 28/2010 sarà:

  1.     Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al primo incontro del procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.
  2.     Quando la mediazione costituisce condizione di procedibilità, il giudice condanna la parte costituita che non ha partecipato al primo incontro senza giustificato motivo al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al doppio del contributo unificato dovuto per il giudizio.
  3.    Nei casi di cui al comma 2, con il provvedimento che definisce il giudizio, il giudice, se richiesto, può altresì condannare la parte soccombente che non ha partecipato alla mediazione al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata in misura non superiore nel massimo alle spese del giudizio maturate dopo la conclusione del procedimento di mediazione.
  4.     Quando provvede ai sensi del comma 2, il giudice trasmette copia del provvedimento adottato nei confronti di una delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, al pubblico ministero presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti, e copia del provvedimento adottato nei confronti di uno dei soggetti vigilati all’autorità di vigilanza competente.

Ovviamente le modifiche sopra indicate saranno applicabili ai procedimenti instaurati successivamente al 30 giugno 2023