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CORTE D’APPELLO DI ROMA SENTENZA N. 3528/2023 DEL 17 MAGGIO 2023

Notifica al condominio

Inoltre, in riferimento alla seconda di dette notificazioni (quella effettuata in data 28/11/2017 all’Amministratore del Condominio XXXXX presso i locali del Condominio muniti di portineria), risulta che il plico venne consegnato al portiere dello stabile, che sottoscrisse regolarmente la cartolina di ricevimento, cui seguì la spedizione, da parte dell’addetto al recapito, della raccomandata prevista dall’art. 7 l. 890/82: anche tale notifica, quindi, deve reputarsi pienamente valida, in quanto, secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, cui questa Corte di merito aderisce, “la notifica di un atto indirizzato al condominio, qualora non avvenga nelle mani dell’amministratore, può essere validamente fatta nello stabile condominiale soltanto qualora in esso si trovino locali destinati allo svolgimento ed alla gestione delle cose e dei servizi comuni (come ad esempio la portineria), idonei, come tali, a configurare un “ufficio” dell’amministratore, dovendo, in mancanza, essere eseguita presso il domicilio privato di quest’ultimo” (Cass. n. 11303/2007; nello stesso senso, vedi anche Cass. n. 2999/2010). Nel caso di specie, come detto, tali locali esistevano senz’altro, essendo presente una portineria presidiata da un portiere che ebbe modo di ricevere il plico, sottoscrivendo altresì la cartolina di ricezione.

S e n t e n z a

nella causa civile di II grado iscritta al n. Omissis del ruolo generale per gli affari contenziosi dell’anno 2018, posta in deliberazione all’udienza collegiale del 19/1/2023, vertente

tra

Condominio XXXXX, elettivamente domiciliato in Omissis, presso lo studio dell’Avv. Omissis, che lo rappresenta e difende giusta procura in atti;

Appellante

e

YYYYY, elettivamente domiciliato in Omissis, presso lo studio dell’Avv. Omissis, che lo rappresenta e difende giusta procura in atti;

Appellato

Oggetto: ripetizione d’indebito.

Conclusioni: come da scritti difensivi.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione ritualmente notificato, il Condominio XXXXX (nel prosieguo, “Condominio”), proponeva appello avverso l’ordinanza ex art. 702 bis c.c., emessa dal Tribunale di Roma in data 8/5/2018, con la quale il Condominio era stato condannato al pagamento, in favore del sig. YYYYY, della somma di Euro 7.433,27, oltre interessi legali dal 21/9/2016 e spese processuali, a titolo di somme da costui versate e non dovute perché richieste in violazione del disposto di cui all’art. 63, comma 4, disp. att. c.c. (che prevede che il debito solidale dell’acquirente di un immobile ubicato in un Condominio per il versamento dei contributi condominiali sia limitato a quelli dovuti nell’anno in corso al momento dell’acquisto e all’anno immediatamente antecedente).

L’appellante, che nel primo grado di giudizio era stato dichiarato contumace, con un unico motivo di doglianza ha sostenuto che il Tribunale era incorso in un “error in procedendo”, in quanto il Condominio non aveva mai ricevuto la notifica dell’ordinanza (effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c.) con cui era stata fissata l’udienza di comparizione delle parti, né presso la propria casella postale (n. 7, cap 00052, Cerveteri), né presso l’ufficio dell’amministratore, sito in Omissis (contrariamente a quanto avvenuto in occasione dell’ordinanza ex art. 702 bis c.p.c., oggetto di impugnazione, che era stata notificata all’ufficio di Via Bennicelli).

Quindi, dopo aver richiamato la disciplina posta dagli artt. 137, 139 e 140 c.p.c., il Condominio concludeva chiedendo la riforma dell’impugnata ordinanza e, per l’effetto, in via principale, l’annullamento della stessa e, in via subordinata, il rinvio della causa al giudice di primo grado; il tutto con vittoria delle spese di lite.

Costituitosi in giudizio, l’appellato si limitava a resistere, evidenziando di aver regolarmente notificato l’atto introduttivo di primo grado all’amministratore del Condominio, unitamente al pedissequo provvedimento di fissazione dell’udienza, sia presso il suo ufficio “Omissis”, sito in Omissis, sia presso lo stesso Condominio XXXXX, dotato di locali di portineria destinati al servizio della cosa comune; pertanto il sig. YYYYY concludeva chiedendo il rigetto dello spiegato gravame e la condanna dell’appellante alla rifusione delle spese del grado.

All’udienza del 19/2/2023, dopo la precisazione delle conclusioni, la causa era trattenuta in decisione, con assegnazione alle parti dei termini di cui all’art. 190 c.p.c..

Motivi della decisione

L’appello è infondato.

Infatti, dall’esame degli atti di causa emerge chiaramente che l’atto introduttivo del giudizio di primo grado venne notificato al Condominio XXXXX, nel rispetto sia degli artt. 137 ss. c.p.c., sia delle norme poste dalla legge n. 890/82 e dalla legge n. 53/94.

Sul punto è sufficiente osservare che il ricorso di primo grado e il pedissequo decreto di fissazione di udienza furono notificati, a mezzo del servizio postale, sia al Condominio XXXXX, in persona dell’amministratore sig. Omissis, sia presso il suo ufficio “Omissis” ubicato in Omissis, sia presso lo stabile condominiale, dotato di locali di portineria destinati al servizio della cosa comune.

Riguardo alla prima di dette notificazioni (all’amministratore presso il suo ufficio di Omissis stante la temporanea assenza del destinatario, attestata dal postino, essa venne effettuata in ossequio alle disposizioni di cui all’art. 8 l. 890/82, mediante il deposito del plico presso l’ufficio postale, la successiva spedizione a mezzo raccomandata della comunicazione di avvenuto deposito, nonché mediante l’immissione dell’avviso in cassetta in data 30 novembre 2017. Il plico, che non venne poi ritirato dal destinatario, venne restituito al mittente dopo la compiuta giacenza, sicché la notificazione deve intendersi perfezionata in data 10 dicembre 2017, una volta decorso il termine di 10 giorni dall’invio della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito. A ciò, poi, aggiungasi che il sig. YYYYY ha dimostrato documentalmente che non solo all’epoca della notifica, ma anche in epoca successiva (vedi la documentazione allegata al relativo fascicolo di parte) l’ufficio dell’amministratore (“Omissis”) era ubicato sia in Omissis, sia in Omissis, ove il postino effettivamente rinvenne il destinatario dell’atto, eseguendo, in sua temporanea assenza, tutti gli adempimenti previsti dall’art. 8 l. 890/82.

Inoltre, in riferimento alla seconda di dette notificazioni (quella effettuata in data 28/11/2017 all’Amministratore del Condominio XXXXX presso i locali del Condominio muniti di portineria), risulta che il plico venne consegnato al portiere dello stabile, che sottoscrisse regolarmente la cartolina di ricevimento, cui seguì la spedizione, da parte dell’addetto al recapito, della raccomandata prevista dall’art. 7 l. 890/82: anche tale notifica, quindi, deve reputarsi pienamente valida, in quanto, secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, cui questa Corte di merito aderisce, “la notifica di un atto indirizzato al condominio, qualora non avvenga nelle mani dell’amministratore, può essere validamente fatta nello stabile condominiale soltanto qualora in esso si trovino locali destinati allo svolgimento ed alla gestione delle cose e dei servizi comuni (come ad esempio la portineria), idonei, come tali, a configurare un “ufficio” dell’amministratore, dovendo, in mancanza, essere eseguita presso il domicilio privato di quest’ultimo” (Cass. n. 11303/2007; nello stesso senso, vedi anche Cass. n. 2999/2010). Nel caso di specie, come detto, tali locali esistevano senz’altro, essendo presente una portineria presidiata da un portiere che ebbe modo di ricevere il plico, sottoscrivendo altresì la cartolina di ricezione.

Per quanto concerne, infine, l’assunto dell’appellante secondo cui il sig. YYYYY sarebbe stato tenuto obbligatoriamente a notificare l’atto introduttivo ed il relativo decreto di fissazione d’udienza presso la casella postale di cui il Condominio si era dotato, esso dev’essere disatteso. Infatti, in materia di notifica degli atti giudiziari a mezzo del servizio postale, la scelta del destinatario di avvalersi per il ricevimento della posta del servizio di casella postale deve ritenersi del tutto ininfluente rispetto alle modalità di notifica degli atti da parte dei terzi, non comportando alcuna deroga alla disciplina generale posta dalla legge n. 890 del 1982 che, all’art. 7, prevede, come regola generale, la consegna del piego a mani proprie del destinatario e, in mancanza, che questi sia avvisato con le modalità previste dall’art. 8 (v. Corte costituzionale n. 346 del 1998); ne consegue che la scelta di dotarsi di una casella postale non può assumere rilevanza nei confronti dei terzi, i quali hanno diritto di confidare nell’avvenuta notifica, una volta eseguite le normali operazioni di recapito postale previste dalla legge. Da quanto premesso deriva che l’appello, totalmente infondato, deve essere rigettato.

Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate come da separato dispositivo.

Trattandosi di causa iscritta a ruolo successivamente al 31-1-2013, occorre dare atto che sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115/2002, come introdotto dall’art. 1, comma 17, L. n. 228/2012, per il versamento, da parte dell’appellante, dell’ulteriore importo indicato nella citata disposizione a titolo di contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte, rigetta l’appello proposto dal Condominio XXXXX, nei confronti di YYYYY avverso l’ordinanza del Tribunale di Roma del 8/5/2018;

condanna l’appellante al pagamento, in favore dell’appellato, delle spese del grado d’appello, che vengono liquidate in Euro 150,00 per esborsi e in Euro 5.809,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge;

dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 1, co. 17 della legge n. 228/2012, per il versamento, da parte dell’appellante, dell’ulteriore importo indicato nella citata disposizione a titolo di contributo unificato.

Così deciso in Roma, lì 15/5/2023.

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CASSAZIONE CIVILE ORDINANZA N. 14016/2023 DEL 22 MAGGIO 2023

Frazionamento di una unità immobiliare – Tabelle millesimali – Art. 69 disp. att. c.c.

A fronte del frazionamento di una unità immobiliare, unità alla quale erano attributi 29 millesimi, sono stati indicati nei riparti 21,18 millesimi a una unità e 7,82 millesimi all’altra unità. Correttamente, pertanto, la Corte d’appello ha affermato che, non sussistendo alcuna modifica del numero delle carature millesimali, ma solo la loro distribuzione tra le due sub-unità, non vi è stata alcuna illegittima revisione della tabella, ma solamente una modifica dal punto di vista del calcolo matematico; d’altro canto, ha osservato la Corte d’appello, il regolamento condominiale prevede all’art. 1 che “le quote fissate saranno suddivise qualora una singola proprietà si trasferisse a più di un subentrante”. Per l’affermazione che la divisione di un appartamento non comporta alcuna automatica incidenza sulle tabelle millesimali, gravando sull’assemblea l’onere di provvedere a ripartire le spese tra le due nuove parti cosi create e i rispettivi titolari cfr. Cass. n. 15109/2019.

ORDINANZA

sul ricorso Omissis proposto da:

YYYYY, rappresentato e difeso, per procura in calce al ricorso, dagli avvocati Omissis ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Omissis;

– ricorrente –

contro

Condominio XXXXX, rappresentato e difeso dall’avvocato Omissis, per procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la SENTENZA n. 1554/2017 della CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA, depositata il 29 giugno 2017;

udita la relazione della causa, svolta dal Consigliere Omissis nell’adunanza in camera di consiglio del 28/11/2022.

PREMESSO CHE

YYYYY ricorre per cassazione avverso la sentenza n. 1554/2017, con la quale la Corte d’appello di Bologna ha rigettato il gravame proposto dal ricorrente, confermando la sentenza del Tribunale di Bologna che aveva respinto la domanda di impugnazione delle deliberazioni assunte dal Condominio XXXXX. YYYYY aveva contestato la validità delle deliberazioni in quanto – per la costituzione dell’assemblea, per il quorum e il calcolo delle maggioranze per stabilire l’entità delle quote dei riparti delle spese – era stata applicata una tabella millesimale diversa da quella apposta in calce al regolamento condominiale di carattere contrattuale.

Resiste con controricorso il Condominio XXXXX.

Il ricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO CHE

1. Il ricorso è articolato in un motivo che contesta “violazione o falsa applicazione degli artt. 68 e 69 disp. att. c.c. e delle norme ivi richiamate, artt. 1123, 1124 e 1136 c.c.”: le tabelle millesimali sono volte a stabilire le c.d. carature delle unità immobiliari, così che non possono essere modificate unilateralmente, ma la loro modifica deve essere contrattualmente approvata.

Il motivo non può essere accolto. A fronte del frazionamento di una unità immobiliare, unità alla quale erano attributi 29 millesimi, sono stati indicati nei riparti 21,18 millesimi a una unità e 7,82 millesimi all’altra unità. Correttamente, pertanto, la Corte d’appello ha affermato che, non sussistendo alcuna modifica del numero delle carature millesimali, ma solo la loro distribuzione tra le due sub-unità, non vi è stata alcuna illegittima revisione della tabella, ma solamente una modifica dal punto di vista del calcolo matematico; d’altro canto, ha osservato la Corte d’appello, il regolamento condominiale prevede all’art. 1 che “le quote fissate saranno suddivise qualora una singola proprietà si trasferisse a più di un subentrante”. Per l’affermazione che la divisione di un appartamento non comporta alcuna automatica incidenza sulle tabelle millesimali, gravando sull’assemblea l’onere di provvedere a ripartire le spese tra le due nuove parti cosi create e i rispettivi titolari cfr. Cass. n. 15109/2019.

2. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore del controricorrente, che liquida in euro 3.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono, ex art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile, il 28 novembre 2022

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CASSAZIONE CIVILE ORDINANZA   N. 14019/2023 DEL 22 MAGGIO 2023

Art. 1138 c.c. – Regolamento di condominio – Clausole contrattuali – Clausole regolamentari – Art. 1136 c.c.

Secondo la giurisprudenza di questa Corta, infatti, le clausole dei regolamenti condominiali “hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare; ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall’unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, secondo comma c.c.” (così Cass., sez. un., n. 943/1999).

ORDINANZA

sul ricorso Omissis proposto da:

YYYYY, rappresentati e difesi, per procura in calce al ricorso, dagli avvocati Omissis ed elettivamente domiciliati in Omissis presso lo studio dell’avvocato Omissis;

– ricorrenti –

contro

Condominio XXXXX, rappresentato e difeso dall’avvocato Omissis, per procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la SENTENZA n. 445/2018 della CORTE D’APPELLO DI PALERMO, depositata il 2 marzo 2018;

udita la relazione della causa, svolta dal Consigliere Omissis, nell’adunanza in camera di consiglio del 28/11/2022.

PREMESSO CHE

1. YYYYY ricorrono per cassazione avverso la sentenza n. 445/2018, con la quale la Corte d’appello di Palermo ha rigettato il gravame da loro proposto, confermando la sentenza di primo grado del Tribunale di Trapani. Il Tribunale aveva accolto la domanda proposta dal Condominio XXXXX e aveva condannato i ricorrenti “a non parcheggiare al di fuori del proprio posto macchina e dello spazio condominiale fruito come parcheggio a pagamento”, sul presupposto della violazione dell’art. 13 del regolamento condominiale, come modificato e integrato dall’art. 13-bis adottato con delibera condominiale del 27 febbraio 2010; il Tribunale aveva invece rigettato la domanda riconvenzionale dei ricorrenti di accertamento della nullità di due delibere, quella sopra menzionata del 27 febbraio 2010 e quella del 5 aprile 2002, che aveva disposto l’assegnazione annuale, ai condomini che ne avessero fatto richiesta, dell’uso di posti macchina aggiuntivi ricavati nelle zone posteriori e laterali dell’area condominiale.

Resiste con controricorso il Condominio XXXXX.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

CONSIDERATO CHE

I. Il ricorso è articolato in tre motivi.

1. Il primo motivo denuncia “violazione della norma di cui all’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 115 c.p.c.”: il Condominio, che ha adito il giudice, aveva l’onere di provare che i ricorrenti hanno effettuato soste oltre il limite dei sessanta minuti stabilito dal regolamento condominiale per il tempo occorrente al carico e scarico, prova che il giudice d’appello ha invece addossato ai ricorrenti, così violando l’art. 2697 c.c.; il Condominio non ha infatti prodotto alcuna prova “che possa attestare un comportamento in dispregio dell’art. 13 del regolamento condominiale consistente nel parcheggio al di fuori dei posti assegnati per lungo periodo di tempo; al contrario i ricorrenti hanno provato che YYYYY, all’epoca dei fatti, lavorava a Palermo dove viveva cinque giorni a settimana “seguita” dalla sua macchina e che altri condomini posteggiavano “in maniera selvaggia” senza essere mai stati citati in giudizio.

Il motivo non può essere accolto. Correttamente il giudice di merito ha sottolineato che a fronte della circostanza – non contestata dai ricorrenti – della sosta della propria autovettura fuori dai posti assegnati, spettava ai ricorrenti provare che tale sosta non aveva superato i sessanta minuti previsti per il carico e scarico merci dal regolamento condominiale, lasso temporale fissato dalla delibera del 27 febbraio 2010, prova rispetto alla quale non appaiono certo decisive le circostanze sottolineate dai ricorrenti.

2. Il secondo motivo fa valere “nullità della delibera condominiale adottata dal Condominio in data 27 febbraio 2010, violazione delle norme di cui all’art. 70 disp. att. c.c. (antecedente la riforma) e all’art. 1136 c.c.”: la Corte d’appello, partendo dalla distinzione tra clausole oggettivamente regolamentari e clausole tipicamente contrattuali, ha erroneamente applicato al caso di specie il principio per cui solo le seconde, incidendo nella sfera dei diritti soggettivi e degli obblighi dei condomini, devono trovare la loro fonte in un atto negoziale approvato da tutti i condomini; la delibera impugnata del 27 febbraio 2010 ha infatti posto in essere una modifica che interessa i diritti e gli obblighi di ciascun condomino e doveva quindi essere approvata all’unanimità.

Il motivo non può essere accolto. La delibera del 27 febbraio 2010 ha inserito nel regolamento l’art. 13-bis – trascritto alla pag. 3 del ricorso – secondo il quale fuori dai posti assegnati “è consentita la sosta per il tempo occorrente al carico e scarico merci che viene fissato in sessanta minuti”. Si tratta, ha correttamente affermato la Corte d’appello, di regolamentazione delle modalità di uso e di godimento del bene comune che rientra nella potestà regolamentare dell’assemblea dei condomini, integrando l’art. 13- bis una clausola tesa a disciplinare la fruizione della cosa comune.

Secondo la giurisprudenza di questa Corta, infatti, le clausole dei regolamenti condominiali “hanno natura contrattuale soltanto qualora si tratti di clausole limitatrici dei diritti dei condomini sulle proprietà esclusive o comuni ovvero attributive ad alcuni condomini di maggiori diritti rispetto agli altri, mentre, qualora si limitino a disciplinare l’uso dei beni comuni, hanno natura regolamentare; ne consegue che, mentre le clausole di natura contrattuale possono essere modificate soltanto dall’unanimità dei condomini e non da una deliberazione assembleare maggioritaria, avendo la modificazione la medesima natura contrattuale, le clausole di natura regolamentare sono modificabili anche da una deliberazione adottata con la maggioranza prescritta dall’art. 1136, secondo comma c.c.” (così Cass., sez. un., n. 943/1999).

3. Il terzo motivo contesta “istituzione di secondi posti auto a pagamento, violazione della norma di cui agli artt. 1102 e 1120 c.c. (antecedente la riforma legislativa del 2012)”: l’uso esclusivo di un bene comune è possibile solo a fronte di una esplicita autorizzazione dell’assemblea presa all’unanimità; l’assegnazione di un numero limitato di secondi posti macchina a pagamento è da ritenersi innovazione vietata ai sensi dell’art. 1120 c.c., in quanto, essendo a pagamento e non ad uso turnario, altera il rapporto di equilibrio tra tutti gli aventi diritto sullo spazio comune.

Il motivo non può essere accolto. La delibera del 5 aprile 2002 (cfr. le pagg. 4 e 5 della sentenza impugnata) ha stabilito “di ricavare nelle zone posteriori e laterali dell’area condominiale dei posti macchina aggiuntivi da assegnare annualmente in uso ai condomini che ne facciano richiesta e che hanno la necessità di parcheggiare all’interno dell’area condominiale una seconda vettura dietro pagamento di euro 7 mensili a posto, quale contributo per il temporaneo uso esclusivo della porzione della proprietà comune rispetto agli altri condomini; qualora le richieste superino il numero dei posti aggiuntivi disponibili, l’assegnazione di questi avverrà per sorteggio”. Si tratta – come ha osservato il giudice d’appello – non dell’attribuzione in via esclusiva e per un tempo indefinito di posti auto, al di fuori della logica della turnazione, ma della regolamentazione di una forma di godimento turnario dell’area del cortile comune: l’assegnazione dei posti è annuale, su richiesta o sorteggio, ed è previsto il versamento di un mero contributo (7 euro mensili), che non rende a pagamento l’attribuzione dei posti.

Tale regolamentazione rientrava pertanto nelle attribuzioni dell’assemblea condominiale ed è pertanto legittima la delibera che l’ha approvata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, “la delibera assembleare che, in considerazione dell’insufficienza dei posti auto in rapporto al numero dei condomini, ha previsto l’uso turnario e stabilito l’impossibilità, per i singoli condomini, di occupare gli spazi ad essi non assegnati anche se i condomini aventi diritto non occupino in quel momento l’area parcheggio loro riservata, [..] costituisce corretta espressione del potere di regolamentazione dell’uso della cosa comune da parte dell’assemblea; infatti, se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permette un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l’uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento; pertanto, l’assemblea, alla quale spetta il potere di disciplinare i beni e servizi comuni, al fine della migliore e più razionale utilizzazione, ben può stabilire, con deliberazione a maggioranza, il godimento turnario della cosa comune, nel caso in cui – come nella fattispecie in esame – non sia possibile l’uso simultaneo da parte di tutti i condomini, a causa del numero insufficiente dei posti auto condominiali” (così, ex multis, Cass. 12485/2012).

II. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio in favore del controricorrente, che liquida in euro 3.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono, ex art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile, il 28 novembre 2022

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CASSAZIONE CIVILE ORDINANZA  N. 14003/2023 DEL 22 MAGGIO 2023

Art. 1117 c.c. – Varco muro dell’edificio condominiale – Androne e scale edificio

Il motivo non può essere accolto. Il giudice d’appello, nel qualificare l’apertura del varco nel muro dell’edificio condominiale da parte di Omissis quale uso della parte comune, ha seguito l’orientamento di questa Corte. E’ infatti costante l’affermazione secondo la quale “l’androne e le scale di un edificio sono oggetto di proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., anche dei proprietari di locali terranei, che abbiano accesso direttamente dalla strada, in quanto costituiscono elementi necessari per la configurabilità stessa di un fabbricato come diviso in proprietà individuali, per piani o porzioni di piano, e rappresentano, inoltre, il tramite indispensabile per il godimento e la conservazione, da parte o a vantaggio di detti soggetti, delle strutture di copertura, a tetto o a terrazza; è pertanto legittima, e non costituisce spoglio, l’apertura praticata dal proprietario esclusivo di un terraneo con accesso diretto dalla strada, per accedere all’androne, in quanto diretto a utilizzare una parte dell’edificio da ritenersi comune, senza pregiudizio per gli altri condomini” (così Cass. n. 761/1979; più di recente v. Cass. n. 9036/2006).

ORDINANZA

sul ricorso Omissis proposto da:

Condominio XXXXX, rappresentato e difeso per procura a margine del ricorso dall’avvocato Omissis ed elettivamente domiciliato in Omissis presso lo studio dell’avvocato Omissis;

– ricorrente –

contro

YYYYY, rappresentati e difesi per procura in calce al controricorso dagli avvocati Omissis ed elettivamente domiciliati a Omissis presso lo studio dell’avvocato Omissis;

– controricorrenti –

avverso la SENTENZA n. 654/2016 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI, depositata il 19 dicembre 2016;

udita la relazione della causa, svolta dal Consigliere Omissis, nell’adunanza in camera di consiglio del 28/11/2022.

PREMESSO CHE

1. Il Tribunale di Sassari, per quanto interessa in questo giudizio, ha accolto la domanda del Condominio XXXXX di accertamento dell’inesistenza del diritto del convenuto Omissis (cui sono succeduti ex art. 111 c.p.c. i coniugi YYYYY) di accedere al vano scala condominiale e di condanna del medesimo al ripristino dei luoghi, mediante la chiusura della porta di accesso dal vano scala al locale di sua proprietà e del “tubo volante”. Il convenuto, ad avviso del Tribunale, con l’apertura nella parete condominiale di una porta di accesso al vano scala, porta volta a consentire l’ingresso alla sua unità immobiliare costituita da un piano ammezzato ricavato con la costruzione di un soppalco, aveva posto in essere una illegittima alterazione alla destinazione e al godimento di un bene condominiale.

2. YYYYY hanno impugnato la sentenza. La Corte d’appello di Cagliari, dopo avere disposto un supplemento della consulenza tecnica d’ufficio, ha parzialmente accolto il gravame.

Precisata la natura di bene comune delle scale, il giudice ha ricordato la giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di apertura di varchi nel muro condominiale e ha concluso per la legittimità dell’apertura della porta d’accesso al vano scale; ha così rigettato la domanda del Condominio di ripristino dello stato dei luoghi.

3. Avverso la sentenza n. 654/2016 della Corte d’appello il Condominio XXXXX ricorre per cassazione.

Resistono con controricorso YYYYY .

Il ricorrente e i controricorrenti hanno depositato memoria.

CONSIDERATO CHE

I. Il ricorso è articolato in due motivi.

1. Il primo motivo denuncia “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento all’art. 1102 c.c. e all’art. 1120 c.c.”: Omissis, proprietario dei magazzini posti al piano terra del Condominio, nel 2002 ha realizzato una porta di accesso all’interno del vano scala che conduce alle singole unità immobiliari, al fine di creare un ingresso autonomo alla unità immobiliare di sua proprietà posta al piano ammezzato, creata attraverso il frazionamento in senso orizzontale dei magazzini; la Corte d’appello ha erroneamente fatto rientrare tale fattispecie tra le modificazioni dirette solamente a un migliore uso della cosa comune quando invece su tratta di una innovazione che necessitava di essere autorizzata dal condominio ex art. 1120 c.c.

Il motivo non può essere accolto. Il giudice d’appello, nel qualificare l’apertura del varco nel muro dell’edificio condominiale da parte di Omissis quale uso della parte comune, ha seguito l’orientamento di questa Corte. E’ infatti costante l’affermazione secondo la quale “l’androne e le scale di un edificio sono oggetto di proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., anche dei proprietari di locali terranei, che abbiano accesso direttamente dalla strada, in quanto costituiscono elementi necessari per la configurabilità stessa di un fabbricato come diviso in proprietà individuali, per piani o porzioni di piano, e rappresentano, inoltre, il tramite indispensabile per il godimento e la conservazione, da parte o a vantaggio di detti soggetti, delle strutture di copertura, a tetto o a terrazza; è pertanto legittima, e non costituisce spoglio, l’apertura praticata dal proprietario esclusivo di un terraneo con accesso diretto dalla strada, per accedere all’androne, in quanto diretto a utilizzare una parte dell’edificio da ritenersi comune, senza pregiudizio per gli altri condomini” (così Cass. n. 761/1979; più di recente v. Cass. n. 9036/2006).

2. Il secondo motivo denuncia “violazione e/o anche falsa applicazione di norme di diritto, con riferimento all’art. 96 c.p.c., con espresso riferimento alla liquidazione delle spese da parte del giudice d’appello”: la Corte d’appello ha compensato le spese processuali del secondo grado solo nella misura della metà, ponendo a carico del ricorrente la restante parte, quando invece vi è stata soccombenza reciproca (è stata confermata la condanna di rimozione del tubo idrico ed è stata rigettata l’eccezione di controparte di carenza di legittimazione dell’amministratore).

Il motivo non può essere accolto. Il provvedimento di compensazione nella misura della metà delle spese è stato fondato dal giudice sull’accoglimento parziale dell’appello e a fronte della reciproca soccombenza delle parti il giudice ha il potere, ai sensi del comma 2 dell’art. 92 c.p.c., di compensare le spese “parzialmente o per intero”.

II. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/ 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore dei controricorrenti, che liquida in euro 3.700, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono, ex art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115/2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile, il 28 novembre 2022

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TRIBUNALE DI TRIESTE SENTENZA N. 272/2023 17 MAGGIO 2023

TRIBUNALE DI TRIESTE SENTENZA N. 272/2023 17 MAGGIO 2023

L’attrice ha dichiarato di agire a titolo di responsabilità extracontrattuale, sotto la specie della responsabilità del custode prevista dall’art. 2051 c.c..

E’ noto, in generale, che tale disposizione postula, da un verso, che il danno sia cagionato da un’anomalia (originaria o sopravvenuta) nella struttura o nel funzionamento della cosa, occorrendo cioè una “relazione diretta tra la cosa in custodia e l’evento dannoso” (Cass. civ. 1682/00 e 6121/99), dall’altro verso, che esista un “effettivo potere fisico, che implica il governo e l’uso della cosa ed a cui sono riconducibili l’esigenza e l’onere della vigilanza affinché dalla cosa stessa, per sua natura o per particolari contingenze, non derivino danni ad altri” (cfr. Cass. civ. sez. III 18/02/00 n. 1859). Trattasi, invero, di una speciale ipotesi di responsabilità rispetto a quella più generale di cui all’art. 2043 c.c., dalla quale non differisce comunque per essenza e natura, salvo essere caratterizzata da un dovere specifico di contenuto positivo, ovvero da un più intenso dovere di vigilanza – comportante anche quello di adottare le misure idonee ad impedire danni a terzi – imposto a carico di chi abbia a qualsiasi titolo un effettivo, non occasionale, “potere fisico” sulla cosa (cfr. Cass. 5885/99, 3129/87, 1897/83). Ne deriva altresì, che la responsabilità ex art. 2051 c.c. prescinde dal carattere insidioso della cosa dannosa, che perciò il danneggiato non è tenuto a dimostrare, come invece sarebbe necessario se agisse ai sensi dell’art. 2043 c.c. (cfr. Cass. 3041/97).

Quanto poi alla prova liberatoria richiesta dall’art. 2051 c.c., occorre dimostrare il caso fortuito, ossia un fatto estraneo alla sfera di azione del custode tale da determinare da solo, per la sua imprevedibilità ed assoluta eccezionalità, l’evento dannoso, avendo cioè impulso causale autonomo, sì da “interrompere il nesso eziologico fra cosa ed evento lesivo”; fatto che, si badi, può essere ricondotto non solo ad un fattore naturale, bensì anche alla condotta umana, di un terzo o dello stesso danneggiato (in proposito, cfr. Cass. civ. 10703/99, 10434/98, 2430/04 e 584/01; più di recente, la S.C. ha ribadito il principio della cd. “autoresponsabilità”, parlando di “comportamento ordinariamente cauto”: Cass. civ. 4390/2017, 12895/2016 e 11661/2014, ovvero di “normali cautele esigibili in situazioni analoghe”: Cass. civ. 4638/2017, 16885/2016 e 23919/2013).

Con specifico riferimento al danno provocato non direttamente dalla cosa, bensì da una sua alterazione, quale ad es. la comparsa di una macchia d’olio, va menzionata Cass. civ. 13222/16, la quale ha precisato che “Ai diversi fini della prova liberatoria da fornirsi dal custode per sottrarsi a detta responsabilità è invero necessario distinguere tra le situazione di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della cosa in custodia e quelle provocate da una repentina ed imprevedibile alterazione della stessa. Solamente in quest’ultima ipotesi può configurarsi il caso fortuito, in particolare allorquando l’evento dannoso si sia verificato prima che il custode abbia potuto rimuovere, nonostante l’attività di controllo espletata con la dovuta diligenza al fine di tempestivamente ovviarvi, la straordinaria ed imprevedibile situazione di pericolo determinatasi” (v. anche Cass. 1691/09).

Per altro verso, resta fermo che l’astratta configurabilità dell’art. 2051 c.c., così come dell’art. 2043 c.c., non esime comunque il danneggiato dall’onere di provare, prima ancora del danno, e prima che il danneggiante sia chiamato ad offrire la prova liberatoria di competenza, il nesso di causalità tra danno medesimo e condotta dell’agente o debitore, ovvero cosa in custodia (in relazione ad un’anomalia originaria o sopravvenuta nella struttura o nel funzionamento di questa); ossia il danneggiante deve dimostrare che “l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa” (v. Cass. civ. sez. III 13/2/02 n. 2075, 20/10/05 n. 20317, 2331/01; si segnala specialmente Cass. 03/02/2015 n. 1896, che bene chiarisce come “la prova del caso fortuito … incombe al custode, ma presuppone che il danneggiato abbia fornito in via prioritaria la prova del nesso di causalità tra l’evento dannoso lamentato e la cosa in custodia. La natura oggettiva (o ‘semi-oggettiva’) della responsabilità da cose in custodia, ricorrendo i presupposti per l’applicabilità dell’art. 2051 c.c., esonera il danneggiato dalla prova soltanto dell’elemento soggettivo della colpa del custode e non anche del nesso di causalità, che invece deve essere fornita. Solo allorché tale onere sia stato assolto, incomberà a parte convenuta dimostrare il caso fortuito, nei termini sopra specificati, ai fini della liberazione dall’obbligazione risarcitoria. … È erroneo, in particolare, l’assunto in base al quale l’affermata natura oggettiva della responsabilità da cose in custodia legittimi il danneggiato a ritenere assolto l’onere della prova gravante a suo carico dimostrando di essere caduto in corrispondenza di una anomalia, qualunque essa sia e senza alcuna indagine sulle caratteristiche della dedotta ‘insidia’, riferendo per ciò solo al custode ogni altro onere, sub specie di prova liberatoria del caso fortuito. Il danneggiato, invece, è tenuto a fornire positiva prova anche il nesso di causalità tra il danno e la res e, a tal fine, è suo preciso onere dimostrare anzitutto l’attitudine della cosa a produrre il danno, in ragione dell’intrinseca pericolosità ad essa connaturata, atteso che – in assenza di una simile caratteristica della cosa – il nesso causale non può per definizione essere predicato. La oggettiva pericolosità (c.d. “insidiosità”) della res, avuto riguardo a tutte le circostanze specifiche del caso concreto, costituisce oggetto dell’indagine sul nesso di causalità e, quindi, è riconducibile all’ambito della prova che grava sul danneggiato, la quale a sua volta costituisce un prius logico rispetto alla prova liberatoria, di cui sarà poi onerato il custode”).

SENTENZA

nel procedimento civile di I° grado iscritto al n. R.G. Omissis ed iniziato con atto di citazione dd. 5/10/19 da

YYYYY, con avv. Omissis

– attrice –

contro

Condominio XXXXX, in persona dell’amministratore in carica, con avv. Omissis

– parte convenuta –

Assicurazioni (quale incorporante di Omissis), in persona del legale rappresentante, con avv. Omissis

– parte terza chiamata –

avente ad oggetto : risarcimento danni.

Conclusioni della parte attrice:

dichiara di aderire alla proposta di cui all’art. 185 bis c.p.c. formulata dall’On.le Tribunale adito all’udienza tenutasi in data 03.03.2022.

precisa le conclusioni riportandosi ai propri scritti difensivi nonché a quanto dedotto, richiesto ed eccepito nei verbali di causa, chiedendo che la causa venga introitata per la decisione.

Conclusioni della parte convenuta:

In via principale

Respingersi le domanda attorea nei confronti del Condominio XXXXX perché infondata in fatto ed in diritto.

Col ristoro degli onorari e delle spese del giudizio.

In via estremamente subordinata

Nella denegata ipotesi che fossero accertati e quantificati danni all’attrice ascrivibili in una qualche misura al convenuto condominio, determinarli in quelli effettivamente subiti dalla stessa con conseguente e proporzionale riduzione della relativa domanda attorea anche in virtù del concorso della danneggiata alla produzione dell’evento lamentato dalla stessa ex art. 1227 c.c.

Col ristoro degli onorari e delle spese del giudizio.

In via principale nei confronti del terzo chiamato

Nel solo caso di accoglimento, anche parziale, della domanda attorea, accertarsi che la Assicurazioni, che ha incorporato per fusione la Omissis, è tenuta a garantire il convenuto condominio dalle pretese attoree e per l’effetto condannare la terza chiamata a tenerlo indenne da tutte le conseguenze negative della lite ma con compensazione delle spese del giudizio nei rapporti tra il condominio e la terza chiamata.

Conclusioni della parte terza chiamata:

Voglia l’Ill.mo Tribunale di Trieste, adversiss rejectis

IN VIA PRINCIPALE

Rigettarsi la domanda attorea in quanto – anche in ragione dell’art. 1227 c.c. – infondata in fatto ed in diritto e/o comunque del tutto indimostrata.

Con vittoria di diritti, onorari e spese di causa anche di ATP.

IN VIA DI MERO SUBORDINE E SALVO GRAVAME

Nella denegata e non creduta ipotesi di accoglimento della domanda attorea, contenersene il petitum entro quanto di giustizia.

Con integrale compensazione delle spese di lite, anche nel rapporto con la convenuta.

IN VIA ISTRUTTORIA

Al solo fine di non incorrere in decadenze di sorta e senza alcuna inversione dell’onus probandi attoreo – si chiede disporsi prova per interpello formale dell’attrice e per testi sulle seguenti circostanze, da intendersi in forma interrogativa e precedute da “Vero che:

1. la YYYYY, in data 23.09.2016, era ospite nell’appartamento della Signora Omissis, sito in Trieste, Omissis;

2. alla data del 23.09.2016, la YYYYY alloggiava nel sui dicato edificio da due settimane;

3. la YYYYY in precedenza era già stata ospite numerose volte della Signora Omissis;

4. alla data del 23.09.2016, la YYYYY era transitata molte altre volte sulle scale condominiali;

5. la YYYYY denunciava per la prima volta il riferito sinistro occorsole in data 23.09.2016 nel febbraio dell’anno successivo;

6. in data 23.09.2016, la rampa di scale dello stabile si trovava e si trova in perfette condizioni di manutenzione generale;

7. in particolare, la prima rampa di scale è composta da dodici gradini a piano marmoreo aventi una larghezza di 140 cm, pedata di 31 cm ed alzata d 15,2 cm, giusta fotografia che si rammostra (doc. 3);

8. centralmente, i gradini sono rivestiti da una corsia di moquette a pelo corto, di cromia rossa, avente larghezza 100 cm, giusta fotografica che si rammostra (doc. 3);

9. in data 23.09.2016, i dispostivi di contenimento (asta ottonata) del tappeto insistente sulla rampa di scale del Condominio XXXXX erano agganciati e funzionanti, giusta fotografia che si rammostra (doc. 3);

10. in particolare, lungo la pavimentazione di tutto l’atrio non era dato riscontrare la presenza di asperità o avvallamenti;

11. le aste ottonate di contenimento del tappeto erano fissate al pavimento tramite l’inserimento in occhielli infissi alla base di ciascuna alzata giusta fotografia che si rammostra (doc. 3);

12. il fissaggio al pianerottolo rialzato del tappeto era garantito da un lama ottonata avvitata al pavimento, giusta fotografia che si rammostra (doc. 3);

13. il tappeto sito sulla prima rampa di scale (entrando) era munito di un sottogomma antiscivolo, giusta fotografia che si rammostra (doc. 3);

14. in data 09.04.2016, la prima rampa di scala dello stabile era interessata dalla fornitura e posa in opera di una nuova corsia moquette, una nuova lama di fissaggio, un nuovo occhiolo a L in ottone lucido ed un bastone in ottone, giusto preventivo di spesa che si rammostra (doc. 4);

15. in data 23.09.2016, adiacente alla rampa di scale in questione era collocato un corrimano, giusta fotografia che si rammostra (doc. 3);

16. in data 23.09.2016, le condizioni di illuminazione dell’atrio dello stabile erano ottime ed il luogo era perfettamente visibile agli occhi della YYYYY;

17. il portone condominiale presentava e presenta ampie vetrate che lasciano entrare la luce solare, giusta fotografia che si rammostra (doc. 3);

18. l’atrio dello stabile era ed è inoltre dotato di sistema di illuminazione artificiale funzionante;

19. nessun altro incidente ebbe a verificarsi nel punto indicato dall’attrice e nessuna segnalazione è mai pervenuta al Condominio XXXXX in merito alla particolare insidiosità o pericolosità del tratto di calpestio in questione.

S’indicano quali testimoni:

– Omissis

– Omissis

Si chiede, altresì, di essere ammessi a prova contraria sui capitoli avversari ammessi con i testi indicati in precedenza.

Ragioni di Fatto e di Diritto della Decisione

YYYYY ha citato in giudizio dinanzi al Tribunale di Trieste il Condominio XXXXX esponendo di aver riportato lesioni personali allorquando, in data 23/09/16, trovandosi all’interno dello stabile condominiale in quanto ospite della condomina Omissis, nel mentre saliva la prima rampa di scale, rovinava al suolo a causa di un dissesto del tappeto ornamentale ivi collocato, al momento libero ovvero non fissato al pavimento; soccorsa e portata al P.S. le veniva diagnosticata “frattura radiale destra, estremo distale”; vani erano stati i tentativi, compreso l’esperimento della negoziazione assistita, di ottenere un risarcimento in via stragiudiziale dei pregiudizi subiti, cui aveva fatto seguito altresì procedimento ex art. 696 bis c.p.c.. Pertanto, l’attrice ha chiesto accertarsi la responsabilità del condominio convenuto ex art. 2051 c.c e la sua condanna al di cui € 33.506 per biologico permanente, oltre spese mediche e rimborso spese dell’a.t.p..

Costituendosi in giudizio, il Condominio XXXXX ha concluso come in epigrafe, contestando an e quantum debeatur, in punto dinamica del fatto ovvero sussistenza del nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno lamentato, da ascrivere piuttosto a un caso fortuito consistente sia in un’alterazione dello stato dei luoghi imprevista, imprevedibile e non tempestivamente eliminabile, ovvero non segnalabile con la normale diligenza, sia nella condotta della danneggiata ricollegabile all’omissione delle normali cautele esigibili in situazioni analoghe.

Previo differimento della prima udienza, si è costituita altresì Assicurazioni quale incorporante Omissis, che ha svolto analoghe contestazioni circa la fondatezza delle domande attoree.

Richiesti e concessi i termini richiesti ex art. 183 VI comma c.p.c., il G.I. ha ammesso ed assunto prova testimoniale e formulato proposta conciliativa ex art. 185 bis c.c. dd. 16/02/18, non accettata però dalla parte convenuta. Infine – sulle definitive conclusioni delle parti ed assegnati i termini di legge per deposito di conclusionali e repliche -, la causa è stata trattenuta in decisione.

La domanda è infondata e, pertanto, va respinta.

L’attrice ha dichiarato di agire a titolo di responsabilità extracontrattuale, sotto la specie della responsabilità del custode prevista dall’art. 2051 c.c..

E’ noto, in generale, che tale disposizione postula, da un verso, che il danno sia cagionato da un’anomalia (originaria o sopravvenuta) nella struttura o nel funzionamento della cosa, occorrendo cioè una “relazione diretta tra la cosa in custodia e l’evento dannoso” (Cass. civ. 1682/00 e 6121/99), dall’altro verso, che esista un “effettivo potere fisico, che implica il governo e l’uso della cosa ed a cui sono riconducibili l’esigenza e l’onere della vigilanza affinché dalla cosa stessa, per sua natura o per particolari contingenze, non derivino danni ad altri” (cfr. Cass. civ. sez. III 18/02/00 n. 1859). Trattasi, invero, di una speciale ipotesi di responsabilità rispetto a quella più generale di cui all’art. 2043 c.c., dalla quale non differisce comunque per essenza e natura, salvo essere caratterizzata da un dovere specifico di contenuto positivo, ovvero da un più intenso dovere di vigilanza – comportante anche quello di adottare le misure idonee ad impedire danni a terzi – imposto a carico di chi abbia a qualsiasi titolo un effettivo, non occasionale, “potere fisico” sulla cosa (cfr. Cass. 5885/99, 3129/87, 1897/83). Ne deriva altresì, che la responsabilità ex art. 2051 c.c. prescinde dal carattere insidioso della cosa dannosa, che perciò il danneggiato non è tenuto a dimostrare, come invece sarebbe necessario se agisse ai sensi dell’art. 2043 c.c. (cfr. Cass. 3041/97).

Quanto poi alla prova liberatoria richiesta dall’art. 2051 c.c., occorre dimostrare il caso fortuito, ossia un fatto estraneo alla sfera di azione del custode tale da determinare da solo, per la sua imprevedibilità ed assoluta eccezionalità, l’evento dannoso, avendo cioè impulso causale autonomo, sì da “interrompere il nesso eziologico fra cosa ed evento lesivo”; fatto che, si badi, può essere ricondotto non solo ad un fattore naturale, bensì anche alla condotta umana, di un terzo o dello stesso danneggiato (in proposito, cfr. Cass. civ. 10703/99, 10434/98, 2430/04 e 584/01; più di recente, la S.C. ha ribadito il principio della cd. “autoresponsabilità”, parlando di “comportamento ordinariamente cauto”: Cass. civ. 4390/2017, 12895/2016 e 11661/2014, ovvero di “normali cautele esigibili in situazioni analoghe”: Cass. civ. 4638/2017, 16885/2016 e 23919/2013).

Con specifico riferimento al danno provocato non direttamente dalla cosa, bensì da una sua alterazione, quale ad es. la comparsa di una macchia d’olio, va menzionata Cass. civ. 13222/16, la quale ha precisato che “Ai diversi fini della prova liberatoria da fornirsi dal custode per sottrarsi a detta responsabilità è invero necessario distinguere tra le situazione di pericolo connesse alla struttura o alle pertinenze della cosa in custodia e quelle provocate da una repentina ed imprevedibile alterazione della stessa. Solamente in quest’ultima ipotesi può configurarsi il caso fortuito, in particolare allorquando l’evento dannoso si sia verificato prima che il custode abbia potuto rimuovere, nonostante l’attività di controllo espletata con la dovuta diligenza al fine di tempestivamente ovviarvi, la straordinaria ed imprevedibile situazione di pericolo determinatasi” (v. anche Cass. 1691/09).

Per altro verso, resta fermo che l’astratta configurabilità dell’art. 2051 c.c., così come dell’art. 2043 c.c., non esime comunque il danneggiato dall’onere di provare, prima ancora del danno, e prima che il danneggiante sia chiamato ad offrire la prova liberatoria di competenza, il nesso di causalità tra danno medesimo e condotta dell’agente o debitore, ovvero cosa in custodia (in relazione ad un’anomalia originaria o sopravvenuta nella struttura o nel funzionamento di questa); ossia il danneggiante deve dimostrare che “l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa” (v. Cass. civ. sez. III 13/2/02 n. 2075, 20/10/05 n. 20317, 2331/01; si segnala specialmente Cass. 03/02/2015 n. 1896, che bene chiarisce come “la prova del caso fortuito … incombe al custode, ma presuppone che il danneggiato abbia fornito in via prioritaria la prova del nesso di causalità tra l’evento dannoso lamentato e la cosa in custodia. La natura oggettiva (o ‘semi-oggettiva’) della responsabilità da cose in custodia, ricorrendo i presupposti per l’applicabilità dell’art. 2051 c.c., esonera il danneggiato dalla prova soltanto dell’elemento soggettivo della colpa del custode e non anche del nesso di causalità, che invece deve essere fornita. Solo allorché tale onere sia stato assolto, incomberà a parte convenuta dimostrare il caso fortuito, nei termini sopra specificati, ai fini della liberazione dall’obbligazione risarcitoria. … È erroneo, in particolare, l’assunto in base al quale l’affermata natura oggettiva della responsabilità da cose in custodia legittimi il danneggiato a ritenere assolto l’onere della prova gravante a suo carico dimostrando di essere caduto in corrispondenza di una anomalia, qualunque essa sia e senza alcuna indagine sulle caratteristiche della dedotta ‘insidia’, riferendo per ciò solo al custode ogni altro onere, sub specie di prova liberatoria del caso fortuito. Il danneggiato, invece, è tenuto a fornire positiva prova anche il nesso di causalità tra il danno e la res e, a tal fine, è suo preciso onere dimostrare anzitutto l’attitudine della cosa a produrre il danno, in ragione dell’intrinseca pericolosità ad essa connaturata, atteso che – in assenza di una simile caratteristica della cosa – il nesso causale non può per definizione essere predicato. La oggettiva pericolosità (c.d. “insidiosità”) della res, avuto riguardo a tutte le circostanze specifiche del caso concreto, costituisce oggetto dell’indagine sul nesso di causalità e, quindi, è riconducibile all’ambito della prova che grava sul danneggiato, la quale a sua volta costituisce un prius logico rispetto alla prova liberatoria, di cui sarà poi onerato il custode”).

Tutto ciò premesso, ben potrebbe ipotizzarsi una responsabilità ex art. 2051 c.p.c. con riferimento al caso oggi in esame, apparendo indubbio che il sinistro denunciato si sia verificato in uno spazio rientrante nella effettiva possibilità di vigilanza e controllo del condominio convenuto, quale soggetto investito della relativa disponibilità e custodia. Né vi osta la circostanza che la caduta venga causalmente ricollegata ad un agente (tappeto mal ancorato) estrinseco rispetto alla cosa in riferita custodia (scale condominiali).

Tuttavia, si deve escludere che la presunzione sancita dall’art. 2051 c.c. possa giovare all’odierna istante, la quale infatti non ha adeguatamente assolto all’onere probatorio sulla stessa gravante.

In verità, l’attrice si è limitata a produrre fotografie dei luoghi, referti e documentazione medica varia, la relazione di a.t.p. e una “dichiarazione testimoniale”, oltre che a proporre una inutile prova orale tramite testi che in realtà non assistettero al sinistro. Così la teste Omissis, in tesi informata sul fatto, ha chiaramente negato di aver visto la caduta, trovandosi anzi fuori dello stabile condominiale per aspettare la YYYYY, che ne era poi uscita “col braccio dolorante che diceva le faceva male perché era caduta, inciampando sulla prima rampa di scale”, e quindi venendo soccorsa dalla prima.

Ciò non basta ad integrare prova idonea, nei termini di cui si è detto sopra, del nesso eziologico tra cosa in custodia del Condominio ed eventus damni; prova che non può evidentemente sorreggersi soltanto su una (inutile ed irrilevante, come da pacifici e consolidati principi in materia) testimonianza de relato ex parte actoris o su valutazioni astratte ed ipotetiche, quali quelle contenute nell’a.t.p., l’una e le altre non idonee a dimostrare in quale preciso punto e con quali concrete modalità era avvenuta la caduta, né che questa fosse si fosse verificata proprio in corrispondenza dell’invocato difettoso ancoraggio del tappeto, o che tale ultima circostanza – ove anche già oggetto di segnalazioni – fosse in atto al momento della caduta; non senza peraltro rilevare la tardività della denuncia, intervenuta soltanto circa 5 mesi dopo. Rilievi che certo non possono ritenersi superati neanche dalle osservazioni difensive svolte con la memoria di replica attorea dd. 24/04/23.

Sicché, in definitiva – dando pure per avvenuto il fatto storico della caduta (alla luce del dato obiettivo costituito dalle lesioni riportate e vista pure la valutazione di compatibilità, comunque astratta, di cui all’a.t.p.), in mancanza di idonea prova od offerta di prova circa le concrete circostanze e modalità del fatto – il sinistro in questione non potrà che imputarsi a caso fortuito, se non alla condotta della stessa danneggiata (ovvero trattasi di semplice caduta causalmente ascrivibile a mera fatalità, se non a imprudenza o disattenzione).

Pertanto, alla luce del complessivo contesto sopra evidenziato, la domanda attorea non può che essere respinta.

Quanto al regime delle spese processuali, pur prendendo atto dell’accettazione da parte dell’attrice della proposta di rinuncia formulata dal giudice all’udienza del 22/11/22, non può non rilevarsi però che detta rinuncia è intervenuta soltanto ad istruttoria compiuta e dopo un a.t.p, che hanno indubbiamente costretto le controparti a non trascurabili sforzi difensivi altrimenti evitabili, ove l’attrice avesse agito con maggiore prudenza (sapendo di non avere testi oculari).

Pertanto, non vi è ragione di discostarsi dalla soccombenza, senza che peraltro possa parlarsi di rifiuto ingiustificato delle controparti di accettare la proposta di rinuncia a spese compensate, alla luce dei principi, specie di causalità, che vigono in materia.

L’attrice va quindi condannata a rifondere le spese di lite sia della convenuta che della terza chiamata, la cui evocazione in giudizio ha pur sempre provocato, salva peraltro una parziale compensazione, stante l’avvenuta accettazione della proposta.

La liquidazione segue il D.M. 55/14, con gli aggiornamenti ex D.M. 247/22 (quanto al presente giudizio), applicate anche le riduzioni di cui all’art. 4 comma 1, in ragione dell’obiettivo spessore delle attività svolte.

P.Q.M.

ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, definitivamente pronunciando, rigetta la domanda attorea

condanna l’attrice a rifondere 2/3 delle spese di lite del condominio convenuto e della compagnia terza chiamata, liquidate per l’intero, per ciascuno, in € 1.600 per la fase di atp ed € 4.900 per il presente giudizio, per compensi, oltre spese gen, 15% ed IVA e CAP di legge, nonché € 546 per esborsi di parte convenuta; compensato il residuo terzo.

Pone definitivamente gli oneri dell’a.t.p. a carico dell’attrice.

Così deciso a Trieste, il 16/05/23

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TRIBUNALE DI ROMA SENTENZA N. 7660/2023 DEL 16 MAGGIO 2023

Art. 67 disp. Att. c.c. – Art. 1106 c.c. – Rappresentante della comunione in assemblea – Assemblea condominiale Art. 1105 c.c.

Ora, come noto, l’art. 67 disp. att. c.c. prevede che, qualora un’unità immobiliare appartenga in proprietà indivisa a più persone, queste hanno diritto a un solo rappresentante nell’assemblea, “che è designato dai comproprietari interessati a norma dell’art. 1106 c.c.”.

In altri termini, per come emergente dalla citata disposizione normativa, ai fini della scelta del rappresentante della comunione in sede di assemblea condominiale, occorre far riferimento unicamente alle previsioni ex art. 1106 c.c., che rimanda, a sua volta, “alla maggioranza calcolata nel modo indicato dall’articolo precedente” .

L’art. 1105 c.c. prevede poi, sul punto, che per gli atti di ordinaria amministrazione, le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il calore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente.

Deve quindi ritenersi, atteso il richiamo ex art. 67 disp. att. c.c. all’art. 1106 c.c. e il successivo richiamo, da parte di quest’ultimo, alla “maggioranza calcolata nel modo indicato dall’articolo precedente”, che, ai fini della scelta del rappresentante della comunione nell’assemblea condominiale, occorra aver riferimento unicamente al criterio della “maggioranza dei partecipanti”, non risultando rilevante che, nel contesto dell’art. 1105 c.c., il detto criterio sia riferito ai soli atti di ordinaria amministrazione.

Ne consegue come risulti del tutto irrilevante se l’assemblea condominiale abbia natura ordinaria o straordinaria, dovendosi invece, in relazione alla designazione del rappresentante della Comunione in seno alla stessa, procedersi alla sua scelta unicamente in base alle citate disposizioni legislative, e quindi in base al criterio della “maggioranza dei partecipanti”, come peraltro avvenuto nel caso in esame.

Né devono essere condivise le ulteriori deduzioni delle attrici, per come dalle stesse tempestivamente svolte, dovendosi evidenziare, per un verso, l’avvenuta allegazione al verbale assembleare della delibera della Comunione in data 12 maggio 2021 e, per l’altro, che non risultano riconosciuti in capo al Presidente dell’assemblea condominiale, fra le sue funzioni e i suoi doveri, anche poteri valutativi e decisori in ordine all’illegittimità, o meno, delle deleghe conferite.

SENTENZA

Nella causa civile di 1° grado iscritta al N. Omissis del ruolo contenzioso generale dell’anno 2021, posta in deliberazione all’udienza del 18 gennaio 2023, (con termini di legge alle parti per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica) e vertente

Tra

YYYYY, elettivamente domiciliate in Omissis, presso lo Studio dell’Avv. Omissis, che le rappresenta e difende per procura in atti

ATTRICI

E

Condominio XXXXX, in persona dell’amministratore e legale rappresentante pro tempore Sig.ra Omissis, elettivamente domiciliato in Omissis, presso lo Studio dell’Avv. Omissis, che lo rappresenta e difende per procura in atti

CONVENUTO

OGGETTO: Impugnazione delibera condominiale

CONCLUSIONI

All’udienza del 18 gennaio 2023, svolta a mezzo della cd trattazione scritta, le parti concludevano riportandosi ai propri atti.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, le YYYYY esponevano di essere, rispettivamente, comproprietaria pro indiviso per 1/8, unitamente ad altri sei comunisti, dei locali terreni con ingressi da Viale Omissis e Via Omissis, e di un appartamento ed un magazzino in comproprietà.

Evidenziavano che, in data 12 maggio 2021, si era tenuta, su piattaforma Zoom, l’assemblea della Comunione Ereditaria Omissis avente ad oggetto la nomina ed il conferimento di delega, ex art. 67 disp. att. c.c., al rappresentante della comunione per l’assemblea del Condominio XXXXX data 18 – 19 maggio 2021, impugnata in sede giudiziaria in quanto inficiata dall’illegittimità della nomina, quale rappresentante, del Sig. Omissis.

Rilevavano che, atteso l’ordine del giorno dell’assemblea condominiale del 19 maggio 2021, avevano richiesto, a verbale, di allegare la delibera della Comunione al fine di evidenziare l’illegittimità della nomina del rappresentante Omissis, con richiesta al Presidente, Sig.ra Omissis, anch’ella appartenente alla comunione, di verifica della legittimità e validità della procura alla detta rappresentanza; nulla era però stato disposto dal Presidente dell’assemblea.

Concludevano richiedendo la declaratoria di nullità o annullabilità della deliberazione impugnata.

Disposta la comparizione delle parti si costituiva in giudizio il Condominio XXXXX, che eccepiva la decadenza dell’attrice YYYYY dal diritto di impugnare la deliberazione, oltre che la sua carenza di interesse; contestava poi le ulteriori censure di controparte, richiamando il contenuto del verbale dell’assemblea dei comunisti, allegato a quello dell’assemblea condominiale.

Concludeva richiedendo il rigetto delle domande attrici.

La causa veniva trattenuta in decisione all’udienza del 18 gennaio 2023, svolta a mezzo della cd trattazione scritta, con termini di legge alle parti per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Occorre in primo luogo evidenziare, che a fondamento dell’impugnativa della delibera condominiale avanzata nella presente sede, parte attrice ha posto la delibera della Comunione Eredi Omissis in data 12 maggio 2021, in atti, laddove veniva conferita la delega di rappresentante, per partecipare all’assemblea condominiale, al Sig. Omissis sulla base del voto di 4/8.

In particolare, parte attrice ha evidenziato di aver richiesto al Presidente dell’assemblea condominiale, peraltro appartenente alla Comunione, la verifica della legittimità e della validità della procura alla rappresentanza del Sig. Omissis, senza però ottenerne riscontro.

Chiarito ciò, si deve innanzi tutto rilevare, a fronte dell’eccezione di decadenza formulata da parte convenuta nei confronti dell’attrice YYYYY i, che, per come emergente dalla documentazione in atti, il procedimento di mediazione risulta essere stato promosso unicamente dai Sigg. Omissis né la Sig.ra YYYYY risulta aver partecipato alla relativa procedura, come da prodotti verbali.

A ciò deve aggiungersi che, nel corso dell’assemblea del 19 maggio 2021, l’assemblea condominiale autorizzava la Sig.ra YYYYY all’apertura di una seconda porta d’ingresso del magazzino sito all’interno 3A, così dovendosi condividere anche le tempestive censure di difetto di carenza di interesse formulate da parte convenuta.

In ogni caso, le censure attoree formulate nella presente sede, aventi ad oggetto, per come chiarito, l’illegittimità della nomina del Sig. Omissis quale rappresentante, in sede di assemblea condominiale, della Comunione non devono essere condivise.

Per come infatti emergente dalla documentazione in atti, nel corso dell’assemblea della Comunione in data 12 maggio 2021, come da relativo verbale, constatata la regolarità della convocazione, si deliberava, a maggioranza, di conferire, secondo quanto previsto ex art. 67 disp. att. c.c., la delega di rappresentante della comunione all’assemblea condominiale in questione al Sig. Omissis, a favore del quale avevano votato tutti i comunisti ad eccezione della Sig.ra YYYYY, presente per delega anche del Sig. Omissis.

Deve quindi ritenersi che, attesa la quota di un ottavo in capo a ciascun comunista, e di due ottavi in capo al solo Omissis, per come emergente dal citato verbale, la quota di cinque ottavi dei comunisti abbia votato in favore del Sig. Omissis, così esprimendo una volontà a maggioranza, per come peraltro riportato nel verbale.

Ora, come noto, l’art. 67 disp. att. c.c. prevede che, qualora un’unità immobiliare appartenga in proprietà indivisa a più persone, queste hanno diritto a un solo rappresentante nell’assemblea, “che è designato dai comproprietari interessati a norma dell’art. 1106 c.c.”.

In altri termini, per come emergente dalla citata disposizione normativa, ai fini della scelta del rappresentante della comunione in sede di assemblea condominiale, occorre far riferimento unicamente alle previsioni ex art. 1106 c.c., che rimanda, a sua volta, “alla maggioranza calcolata nel modo indicato dall’articolo precedente” .

L’art. 1105 c.c. prevede poi, sul punto, che per gli atti di ordinaria amministrazione, le deliberazioni della maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il calore delle loro quote, sono obbligatorie per la minoranza dissenziente.

Deve quindi ritenersi, atteso il richiamo ex art. 67 disp. att. c.c. all’art. 1106 c.c. e il successivo richiamo, da parte di quest’ultimo, alla “maggioranza calcolata nel modo indicato dall’articolo precedente”, che, ai fini della scelta del rappresentante della comunione nell’assemblea condominiale, occorra aver riferimento unicamente al criterio della “maggioranza dei partecipanti”, non risultando rilevante che, nel contesto dell’art. 1105 c.c., il detto criterio sia riferito ai soli atti di ordinaria amministrazione.

Ne consegue come risulti del tutto irrilevante se l’assemblea condominiale abbia natura ordinaria o straordinaria, dovendosi invece, in relazione alla designazione del rappresentante della Comunione in seno alla stessa, procedersi alla sua scelta unicamente in base alle citate disposizioni legislative, e quindi in base al criterio della “maggioranza dei partecipanti”, come peraltro avvenuto nel caso in esame.

Né devono essere condivise le ulteriori deduzioni delle attrici, per come dalle stesse tempestivamente svolte, dovendosi evidenziare, per un verso, l’avvenuta allegazione al verbale assembleare della delibera della Comunione in data 12 maggio 2021 e, per l’altro, che non risultano riconosciuti in capo al Presidente dell’assemblea condominiale, fra le sue funzioni e i suoi doveri, anche poteri valutativi e decisori in ordine all’illegittimità, o meno, delle deleghe conferite.

Alla luce delle considerazioni che precedono, pertanto, sulla base delle censure formulate e degli elementi tempestivamente introdotti in giudizio, la domanda attrice deve essere rigettata, risultando le conclusioni raggiunte assorbenti ogni ulteriore profilo dedotto ed evidenziandosi, in ultimo, l’inammissibilità, nella presente sede, della domanda di improcedibilità del giudizio, peraltro formulata dalle medesime attrici, avanzata solo in sede di comparsa conclusionale.

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

Il Tribunale di Roma, V Sezione Civile, definitivamente pronunciando, nel contraddittorio delle parti, così provvede:

I) Rigetta la domanda attrice;

II) Condanna parte attrice al pagamento delle spese di lite in favore di parte convenuta, liquidate in complessivi euro 2.300,00, di cui euro 700,00 per la fase introduttiva, euro 600,00 per la fase di studio ed euro 1.000,00 per la fase decisoria, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma il 15 maggio 2023

CategoriesSentenze Civili

CASSAZIONE CIVILE ORDINANZA N. 10865/2023 DEL 24 APRILE 2023

Legittimazione legale rappresentante società amministratore del condominio – Possesso 

In primo luogo, va osservato che la Corte territoriale ha accertato che Omissis ha agito quale legale rappresentante della società amministratrice del condominio, che è la Omissis; in tale veste l’ Omissis era pienamente legittimato ad agire in giudizio in nome e per conto del condominio e a rilasciare procura ad litem.
Il riconoscimento della legittimazione ad agire di Omissis, quale legale rappresentante della società amministratrice del condominio, è conforme alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo la quale l’incarico di amministratore del condominio può essere conferito, oltre che a una persona fisica, anche a una persona giuridica (Cass., Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406). In tale quadro, evidentemente è il legale rappresentante della società nominata amministratore dall’assemblea legittimato a conferire mandato al difensore per la rappresentanza in giudizio del condominio (Cass. Sez. 2, n. 11155 del 1994).
Escluso dalla stessa prospettazione di parte ricorrente l’esercizio di un possesso del diritto di passaggio carrabile sull’area condominiale ad immagine di un diritto reale, il Giudice d’appello ha correttamente applicato l’art. 1168 comma II cod. proc. civ., secondo cui il detentore cosiddetto qualificato, cioè colui che esercita il potere di fatto sulla cosa altrui con l’intenzione di tenerla a propria disposizione in virtù di un diritto personale, può proporre azione di reintegrazione del possesso, ma deve provare di aver esercitato in nome altrui il potere di fatto sulla cosa, dimostrando l’esistenza del titolo posto a base dell’allegata detenzione (Cass. Sez. 6 – 2, n. 3627 del 2014); inoltre, poiché la posizione lato sensu possessoria del detentore non ha un’estensione oggettiva pari a quella del possesso stricto sensu, tale da prescindere dal vincolo obbligatorio che ne concreta e delimita il fondamento, il giudice del merito, a fronte delle contestazioni dell’intimato, non può, ai fini del riconoscimento della tutela possessoria, esimersi dall’accertamento del rapporto obbligatorio e dalla verifica che l’attività, contestata dal preteso autore dello spoglio, rientri nell’ambito della detenzione consentita da quel rapporto (Cass. Sez. 2, n. 8489 del 22/06/2000; cfr. Sez. 6 – 2, n. 19114 del 2015).


ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso Omissis proposto da:
YYYYY, elettivamente domiciliato in Omissis, presso lo studio dell’avv. Omissis, rappresentato e difeso dagli avv. Omissis, come da procura allegata al ricorso, con indicazione degli indirizzi pec;
– ricorrente –
contro
Condominio XXXXX, in persona dell’amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in Omissis presso lo studio dell’avv. Omissis che lo rappresenta e difende unitamente agli avv.ti Omissis, come da procura in calce al controricorso, con indicazione degli indirizzi pec;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3198/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 22/11/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/03/2023 dal consigliere Omissis;
lette le memorie delle parti.

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2013 YYYYY ottenne dal Tribunale di Belluno (Sez. di Pieve di Cadore), nei confronti del Condominio XXXXX, un’ordinanza possessoria di rimozione di una fioriera che, a suo dire, gli impediva l’accesso alle aree del piano interrato e del fabbricato ad uso autorimessa, confinante con uno spazio scoperto dello stabile condominiale.
Nel giudizio di merito, promosso dal condominio ex art. 703 cod. proc. civ., il Tribunale, tuttavia, revocò il provvedimento interdittale.
2. Con sentenza n. 3198 del 2018, la Corte d’Appello di Venezia rigettò l’appello di YYYYY, ritenendo che non vi fosse prova del titolo per cui il ricorrente aveva agito in possessoria, atteso che egli stesso aveva rappresentato di avere soltanto la disponibilità non titolata del piano interrato e dell’autorimessa e, pertanto, non un possesso tutelabile e che non risultava neppure provato il passaggio sul piazzale da sempre destinato al parcheggio del condominio;
preliminarmente, per quel che ancora qui rileva, rigettò anche l’eccezione di difetto di legittimazione attiva del rappresentante costituito per il condominio.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione YYYYY, sulla base di quattro motivi.
Il Condominio ha resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, in relazione all’eccezione di inammissibilità della produzione documentale indicata in ricorso con «n. 5 – fascicolo ad hoc con atti e documenti richiamati», come proposta dal Condominio controricorrente, deve rilevarsi in fatto che YYYYY ha depositato la sua produzione ai sensi dell’art. 369, comma II, n. 4 cod. proc. civ. con il ricorso, nella cui parte narrativa ha indicato, nell’illustrazione di ogni motivo, il documento prodotto a sostegno e la sua collocazione nei fascicoli di parte dei precedenti gradi; in tal modo, ha supplito alla mancata formulazione di un indice dettagliato per ciascuna produzione in questa sede, atteso che l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., così come modificato dall’art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, «gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda» è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Cass. Sez. U, n. 22726 del 03/11/2011; Sez. 3, n. 11805 del 05/05/2021).
Diversa questione è, invece, la produzione nel procedimento per cassazione – che non consente alcuna forma d’istruzione probatoria – di documenti ovvero di altre cose materiali che servano come mezzi di prova non riguardanti la nullità della sentenza o l’inammissibilità del ricorso o del controricorso non acquisiti su istanza di parte o d’ufficio nei gradi precedenti: il coordinamento e la interpretazione degli artt. 369, n. 4, e 372 cod. proc. civ. vanno compiuti, infatti, in relazione al quadro sistematico risultante dalla funzione del ricorso e dalla struttura del giudizio di cassazione che consentono censure fondate su errori in iudicando o in procedendo, in riferimento ad elementi di fatto già acquisiti al giudizio, nonché all’art. 366 cod. proc. civ. che indica il contenuto del ricorso, in relazione al quale l’art. 369 determina ed indica i documenti che ad esso debbono essere allegati, al fine di offrire alla Corte un quadro immediato, completo e autosufficiente delle censure sulle quali deve pronunciarsi. Ne deriva che, in tale quadro, non soltanto possono essere prodotti nel giudizio di legittimità, ma a norma dell’art. 369 debbono esserlo, a pena di improcedibilità del ricorso (soltanto, peraltro, ove la mancata produzione renda impossibile l’esame del ricorso stesso) i documenti, già prodotti dalle parti o acquisiti di ufficio al giudizio nei gradi precedenti, sui quali si fonda il ricorso; cosicché la norma dell’art. 372 va interpretata nel senso che non è vietata l’allegazione al ricorso di documenti già acquisiti al giudizio nei gradi precedenti, ma soltanto – di regola – di quelli nuovi, trovando l’art. 372 la sua ratio nel divieto di introdurre nel giudizio di cassazione nuovi elementi di fatto, salvo che nelle particolari ipotesi da esso previste (Cass. Sez. 1, n. 570 del 22/01/1998).
Nei limiti fissati da questi principi è allora evidentemente inammissibile la produzione di documenti già non acquisita nei gradi precedenti, quando la relativa statuizione di inammissibilità del Giudice di merito non sia stata – come nella specie e come di seguito specificato – oggetto di specifica censura nel giudizio di legittimità.
2. Ciò precisato in rito, può procedersi all’esame dei motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente ha lamentato la violazione e la falsa applicazione degli art. 2266 e segg. cod. civ. e 83 cod. proc. civ., nonché l’omesso esame di fatto decisivo, per avere la Corte territoriale escluso la nullità della sentenza di primo grado per difetto di legittimazione attiva di Omissis.
Il motivo è inammissibile sotto duplice profilo.
In primo luogo, va osservato che la Corte territoriale ha accertato che Omissis ha agito quale legale rappresentante della società amministratrice del condominio, che è la Omissis; in tale veste l’ Omissis era pienamente legittimato ad agire in giudizio in nome e per conto del condominio e a rilasciare procura ad litem.
Il riconoscimento della legittimazione ad agire di Omissis, quale legale rappresentante della società amministratrice del condominio, è conforme alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo la quale l’incarico di amministratore del condominio può essere conferito, oltre che a una persona fisica, anche a una persona giuridica (Cass., Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406). In tale quadro, evidentemente è il legale rappresentante della società nominata amministratore dall’assemblea legittimato a conferire mandato al difensore per la rappresentanza in giudizio del condominio (Cass. Sez. 2, n. 11155 del 1994).

In secondo luogo, poi, la Corte di appello ha accertato che l’operato di Omissis, con riferimento al giudizio di primo grado, è stato successivamente ratificato dall’assemblea condominiale.
Tale seconda ratio decidendi non è attinta dal motivo, con conseguente inammissibilità dell’intera censura.
2.2. Con il secondo motivo, YYYYY ha prospettato, in riferimento all’articolo 360, comma I, n.3 e 5 cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione dell’art. 1140 in relazione agli articoli 1168 e 1170 cod. civ. e, in riferimento all’art. 360, comma I, n.3-5 cod. proc. civ., «per inconciliabilità della motivazione in relazione a due diverse situazioni fattuali e per avere omesso di considerare lo ius possidendi quale condomino». Illustrando la censura, il ricorrente ha sostenuto che la «situazione di fatto in cui egli si trovava, ovvero l’uso di garages e della rampa per accedervi, di proprietà di terzi», «impedita» (così in ricorso) dall’avvenuta apposizione della fioriera sul solaio del piano 1° del Condominio, non necessitava di alcuna «prova del diritto reale corrispondente» per giustificare il potere di fatto e che, in ogni caso, il diritto di passaggio risultava accertato nella sentenza n. 1177/2016 del Tribunale di Belluno, passata in giudicato, che tuttavia la Corte non aveva esaminato ritenendola produzione tardiva; infine, risulterebbe contraddittoria ed erronea la motivazione nella parte in cui è stato escluso il possesso del passaggio carrabile attraverso il fondo di proprietà del condominio atteso che egli stesso è un condomino.
Anche questo motivo è inammissibile perché ugualmente non si confronta con la ratio decidendi.
La Corte territoriale (in accoglimento dell’eccezione del condominio appellato) ha ritenuto inutilizzabile la sentenza allegata all’atto di impugnazione, in quanto prodotta nel giudizio di appello in violazione produzione dell’art. 345, comma III, cod. proc. civ.; ha quindi rilevato che la legittimazione attiva del ricorrente per difetto di prova del titolo della pretesa detenzione era stata già esclusa in primo grado proprio perché egli stesso aveva affermato «di essere nella disponibilità dei beni senza averne titolo» e che non era stato offerto alcun «documento che contenga l’autorizzazione da parte della proprietà [al signor YYYYY] ad utilizzare l’autorimessa interrata»;
ha poi ritenuto che la prova della legittimazione attiva non fosse ricavabile dalle fotografie dello stato dei luoghi, perché del tutto inidonee alla prova di un titolo; ha infine sottolineato che non è stata offerta prova di un passaggio carraio da e verso l’autorimessa.
Pertanto, escluso dalla stessa prospettazione di parte ricorrente l’esercizio di un possesso del diritto di passaggio carrabile sull’area condominiale ad immagine di un diritto reale, il Giudice d’appello ha correttamente applicato l’art. 1168 comma II cod. proc. civ., secondo cui il detentore cosiddetto qualificato, cioè colui che esercita il potere di fatto sulla cosa altrui con l’intenzione di tenerla a propria disposizione in virtù di un diritto personale, può proporre azione di reintegrazione del possesso, ma deve provare di aver esercitato in nome altrui il potere di fatto sulla cosa, dimostrando l’esistenza del titolo posto a base dell’allegata detenzione (Cass. Sez. 6 – 2, n. 3627 del 2014); inoltre, poiché la posizione lato sensu possessoria del detentore non ha un’estensione oggettiva pari a quella del possesso stricto sensu, tale da prescindere dal vincolo obbligatorio che ne concreta e delimita il fondamento, il giudice del merito, a fronte delle contestazioni dell’intimato, non può, ai fini del riconoscimento della tutela possessoria, esimersi dall’accertamento del rapporto obbligatorio e dalla verifica che l’attività, contestata dal preteso autore dello spoglio, rientri nell’ambito della detenzione consentita da quel rapporto (Cass. Sez. 2, n. 8489 del 22/06/2000; cfr. Sez. 6 – 2, n. 19114 del 2015).
In tal senso, è del tutto irrilevante la qualità di condomino e, in correlazione, il possesso del diritto a passare «a piedi» (così in ricorso) sull’area condominiale, perché quel che unicamente rileva è il passaggio carrabile per l’accesso all’autorimessa dei terzi: nel ricorso possessorio, infatti, YYYYY aveva proprio lamentato che fosse il passaggio carrabile alla rampa e all’autorimessa ad essere impedito dalla fioriera apposta dal Condominio.
Il ricorrente ha pure sostenuto che la prova sarebbe nella sentenza n. 177/2016 del Tribunale di Belluno, ma la produzione, come da lui riconosciuto, è stata ritenuta inammissibile dalla Corte territoriale perché tardiva; e su tale declaratoria di inammissibilità per tardività non è stata formulata censura.
2.3 Con il terzo motivo, il ricorrente ha lamentato la «violazione e falsa applicazione dell’art. 360, comma I, n. 3 e 5 cod. proc. civ. per omesso esame delle circostanze di fatto riferite dai testimoni».
Anche questo motivo è inammissibile sotto duplice profilo.
Innanzitutto, il motivo non indica la norma di legge che sarebbe stata in ipotesi violata (norma che non può essere l’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., che si limita ad indicare uno dei motivi per cui è consentito il ricorso per cassazione).
In secondo luogo, poi, è inammissibile il motivo proposto ex art. 360 n. 5, in presenza di “doppia conforme”.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non v’è ragione di discostarsi, nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dal quinto comma dell’art. 348 ter cod. proc. civ., il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass., Sez. 2, n. 5528 del 10/03/2014; conf., Cass., Sez. 1, n. 26774 del 22/12/2016; Cass., Sez. L, n. 20994 del 06/08/2019). Tale onere il ricorrente non ha adempiuto.
E peraltro, le dichiarazioni testimoniali, per come riportate in ricorso, non costituiscono per nulla fatto decisivo, in quanto non suppliscono alla carenza di prova della detenzione qualificata come già rilevata: queste dichiarazioni concernono, infatti, unicamente il mero passaggio sull’area condominiale e la fornitura della legna e questi fatti, in sé, non rilevano perché non escludenti l’uso precario.
2.4. Con il quarto motivo, infine, il ricorrente ha censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione, in relazione all’articolo 360 comma I n. 3 e 5, degli articoli 342 e 345 cod. proc. civ. «per aver trattato questioni petitorie, così violando anche l’articolo 705 cod. proc. civ. per aver omesso l’esame di documenti comprovanti il giudicato esterno».
La censura, con cui il ricorrente ha sostenuto che la decisione contrasterebbe con la sentenza n. 792/2014 resa dalla stessa Corte d’appello di Venezia nei confronti dei condomini del Condominio convenuto e risulterebbe motivata in modo contraddittorio in riferimento alla destinazione a parcheggio dell’area condominiale dov’è stata apposta la fioriera, è inammissibile per plurime ragioni.
Innanzitutto, il ricorrente denuncia la violazione di una serie di disposizione di legge senza curarsi di prenderne in esame il precetto normativo e di raffrontarlo con la decisione impugnata. Sul punto, va richiamato il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass., Sez. Un., n. 23745 del 28/10/2020). Sotto tale profilo il motivo appare del tutto privo di specificità.
E peraltro, va osservato che la questione della destinazione a parcheggio dell’area è stata rilevata non al fine di accertare una situazione petitoria preclusiva, ma soltanto allo scopo di sottolineare l’incompatibilità in fatto del preteso esercizio di un passaggio carrabile attraverso l’area condominiale invece vincolata e destinata in fatto a parcheggio.
Inammissibile, in presenza di doppia conforme, è poi il profilo del motivo dedotto come omesso esame di fatto decisivo, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.
3. In definitiva, il ricorso dev’essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P. Q. M.

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore del Condominio XXXXX, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 (quattromila) per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

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CASSAZIONE CIVILE SENTENZA N. 12636/2023 DEL 10 MAGGIO 2023

S E N T E N Z A

sul ricorso Omissis proposto da:
Condominio XXXXX, in persona dell’Amministratore pro tempore, rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine del ricorso, dall’avvocato Omissis del foro di Omissis ed elettivamente domiciliato in Omissis, presso lo studio dell’avvocato Omissis;
– ricorrente –
contro
YYYYY, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato YYYYY come da procura speciale a margine dell’ultima pagina del controricorso ed elettivamente domiciliata in Omissis, presso lo studio del difensore;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
e contro
CCCCC, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Omissis del foro di Omissis e Omissis del foro di Omissis come da procura speciale a margine del controricorso ed elettivamente domiciliata in Omissis, presso lo studio del secondo difensore;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. della Corte di appello di Torino del 20 ottobre 2017, comunicata a mezzo p.e.c. in data 25.10.2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’udienza pubblica del 7 dicembre 2022 dal Consigliere relatore Dott.ssa Omissis, tenutasi ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020;
letta la memoria udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Omissis, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Condominio XXXXX sito in Omissis evocava, dinanzi al Tribunale di Ivrea, in qualità di condomina, la CCCCC, in qualità di conduttrice, la YYYYY, e in qualità di ex conduttrice, la Omissis, lamentando che le stesse utilizzavano in via esclusiva, in assenza di titolo, una porzione di suolo di proprietà comune, della superficie di mq. 121,47, posta all’esterno dei locali di proprietà della CCCCC, impedendo il pari uso agli altri condomini mediante l’apposizione di due cancelli;
chiedeva, pertanto, l’accertamento della proprietà comune dell’area de qua e il suo rilascio, oltre alla rimessione in pristino e al risarcimento del danno.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza della CCCCC, che eccepiva il difetto di legittimazione attiva dell’Amministratore in assenza di autorizzazione del Condominio e la competenza del Giudice di pace, e della YYYYY, che eccepiva la necessità del litisconsorzio con tutti i condomini, proposto intervento volontario dai condomini, Omissis in adesione alle posizione del Condominio, il giudice adito, istruita la causa, con sentenza n. 382 del 2016, accoglieva la domanda attorea e dichiarava che lo spazio individuato nel Regolamento e nell’allegata planimetria come “pensilina lato est” era di proprietà del Condominio, respinte le restanti istanze, con attribuzione delle spese di lite in base alla soccombenza.
Il giudice di prime cure, ritenuta la legittimazione attiva dell’amministratore ai sensi dell’art. 1130 n. 4 c.c., trattandosi di azione non qualificabile come rei vindicatio, non venendo in rilievo un’incertezza sulla proprietà del bene, pacificamente del Condominio, ma l’uso esclusivo dello stesso da parte dei convenuti, per cui doveva qualificarsi quale azione personale, trovando fondamento nell’asserito sopravvenuto venir meno del titolo di detenzione del bene da parte delle società convenute. Da ciò derivava che non si verteva in ipotesi di litisconsorzio necessario con i condomini; inoltre venendo in rilievo una fattispecie di cui all’art. 1102 c.c. questa radicava la competenza del giudice adito. Nel merito, il giudice accertava che la condomina CCCCC aveva locato alla YYYYY un bene condominiale, quale la pensilina est, di cui la locatrice al momento della conclusione del contratto di locazione aveva la detenzione esclusiva e qualificandola come comodataria, in virtù della delibera n. 12 del 08.02.2011, con la quale l’assemblea aveva deciso di “affittare una porzione delle parti comuni alla CCCCC della parte dietro per uso scarico merci ad uso gratuito permanente”. Aggiungeva che in seguito, con le delibere del 26.06.2012 il Condominio aveva revocato quelle n. 4 del 07.09.2010 e n. 12 dell’08.02.2011, deliberando di chiedere un indennizzo per l’occupazione del bene comune. Alla luce di quanto sopra riteneva che il vincolo contrattuale con la YYYYY fosse validamente sorto, avendo avuto la CCCCC la disponibilità esclusiva e qualificata del bene comune al momento della stipula del contratto di locazione e non sussistendo alcuna opposizione dei condomini sul punto in tempo antecedente alla conclusione della locazione, né vi era spazio per il risarcimento dei danni ma al più per il canone di locazione non richiesto.
In virtù di rituale impugnazione interposta dal Condominio, la Corte di appello di Torino, nella resistenza delle società appellate, con ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. dichiarava la inammissibilità dell’appello.
A sostegno della decisione adottata il giudice dell’impugnazione, condividendo le affermazioni del giudice di prime cure, rilevava che il rapporto intercorso fra la CCCCC ed il Condominio era da qualificare in termini di comodato, per cui l’appellante avrebbe dovuto agire nei confronti della CCCCC sulla base di siffatto rapporto, mentre ciò non era avvenuto per avere insistito nelle domande introdotte in primo grado, solo in appello invocata la violazione dell’art. 1804 c.c.
Per la cassazione dell’ordinanza della Corte di appello e, in subordine, avverso la sentenza di primo grado, ha proposto ricorso l’originario attore, sulla base di cinque motivi, cui hanno resistito con separati controricorsi la CCCCC e la YYYYY, contenente quello di quest’ultima anche ricorso incidentale condizionale affidato a due motivi. 
Posto in discussione il ricorso per la decisione allo stato degli atti all’udienza pubblica del 7 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020, in prossimità della quale è stata depositata dal sostituto procuratore generale, dott. Tommaso Basile, memoria con cui ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso principale, assorbito quello incidentale.
La sola YYYYY ha curato il depositato anche di memoria ex art. 378 c.p.c.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il primo motivo di ricorso denuncia il Condominio denuncia la violazione degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c. per avere la Corte di merito ritenuta “giusta” la decisione del primo giudice sulla base di un diverso percorso argomentativo, in particolare laddove ha ritenuto che il rapporto intercorso fra il Condominio e la CCCCC andrebbe ricondotto alla fattispecie del comodato, dedotto solo nel giudizio di appello la violazione dell’art. 1804 c.c. Così argomentando, ad avviso del ricorrente, avrebbe compiuto un salto logico rispetto alla sentenza impugnata, travisandone il fondamento ovvero dandole un fondamento affatto diverso.
Il secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c., oltre agli artt. 132, comma 2 n. 4) c.p.c. e 111, comma 6 Cost., con riferimento all’art. 360, comma 1 n. 4) c.p.c., per avere il Giudice di appello deciso la causa dando al rapporto controverso una diversa qualificazione giuridica, che invece non era consentita in difetto di una espressa sollecitazione da parte di chi vi abbia interesse.
Il terzo motivo deduce la violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., oltre agli artt. 132, comma 2 n. 4) c.p.c. e 111, comma 6 Cost., con riferimento all’art. 360, comma 1 n. 4) c.p.c., per non avere la Corte distrettuale tenuto conto che era stato il Tribunale, in via incidentale, ad avere teorizzato la esistenza di un comodato, ma in un’ottica diversa da quella propugnata dal Giudice del gravame. Il Giudice di prime cure aveva teorizzato il possesso da parte della comproprietaria CCCCC dell’area de qua, possesso che si poneva quale presupposto per la configurazione della negotiorum gestio e quindi sancire la legittimità dell’operato della CCCCC nello stipulare il contratto di locazione anche in relazione a siffatto spazio. La discrasia che ha portato la Corte di merito ad affermare che il Condominio avrebbe dovuto fin dall’atto introduttivo di primo grado lamentare la violazione della norma di cui all’art. 1804 c.c., chiedendo l’immediata restituzione della cosa, oltre al risarcimento del danno, ipotizzando, dunque, una non corretta causa petendi, pur riconoscendo che il Condominio avrebbe potuto richiedere l’immediata restituzione della cosa, oltre al risarcimento, istanza che peraltro aveva già formulato attraverso il ricorso ex art. 702 bis c.p.c., inserito quale primo atto del fascicolo di primo grado. 
Il quarto motivo lamenta la violazione degli artt. 2028, 1102, 1804 e 1810 c.c., con riferimento all’art. 360, comma 1 n. 3) c.p.c., per avere il Tribunale ritenuto che la locazione dell’area comune fosse da riferire a fattispecie di gestione di affare, così consentendo alla CCCCC di sostituirsi legittimamente all’inerte Condominio nel precipuo interesse dello stesso, senza tenere conto che trattandosi di bene comune, vertendosi in ambito condominiale, non poteva esserci una destinazione diversa che quella al bene connaturata, ossia alle esigenze della collettività condominiale.
Il quinto mezzo denuncia la violazione degli artt. 111, comma 6 Cost., 112 e 132, comma 2 n. 4 c.p.c., con riferimento all’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., per essere stata esclusa dal Tribunale il risarcimento dal momento che mancava il presupposto della “illegittimità della occupazione del bene comune”, e ciò in contrasto insanabile con le argomentazioni per la reiezione della domanda nei confronti della CCCCC, laddove aveva fatto “salvo il diritto del Condominio al risarcimento dei danni verso il condomino-locatore ove la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi della comunione, …nonché la possibilità di azionare la tutela risarcitoria contrattuale per inadempimento agli obblighi di cui agli artt. 1804, c. 2 e 1810 c.c. in materia di comodato”. In tale modo – ad avviso del ricorrente – sarebbero state poste le condizioni per l’attivazione di un nuovo giudizio contro la CCCCC per far valere quegli inadempimenti.
I primi tre motivi di ricorso, con i quali viene censurata l’ordinanza pronunciata ai sensi degli artt. 348 bis e ter c.p.c., vanno esaminati congiuntamente, giacchè attengono, da diverse angolazioni, ai profili di nullità del provvedimento, che l’istante assume per essere stata confermata la decisione del primo giudice sulla base di un diverso percorso argomentativo.
Ciò premesso, le censure sono inammissibili.
L’ordinanza emessa dalla Corte di appello di Torino contiene una decisione prognostica sfavorevole dell’accoglimento della impugnazione proposta dal Condominio e viene impugnata con ricorso per cassazione deducendo vizi di legittimità.
Invero la Corte di legittimità ha confermato l’orientamento secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione, con il quale si contesti un “error in judicando”, contro l’ordinanza ex artt. 348 bis e ter c.p.c., motivata con la formulazione del giudizio prognostico di manifesta infondatezza nel merito dell’appello, per il solo fatto che essa, pur condividendo le ragioni della decisione appellata, contenga anche proprie argomentazioni, diverse da quelle prese in considerazione dal giudice di primo grado, perché tale possibilità è consentita dall’art. 348 ter, quarto comma, c.p.c., che permette, in questo caso, l’impugnazione della sentenza di primo grado per vizio di motivazione, facoltà esclusa qualora le ragioni delle decisioni di primo e secondo grado siano identiche quanto al giudizio di fatto (Cass. n. 13835 del 2019).
Del resto, l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’impugnazione per manifesta infondatezza nel merito non è impugnabile con ricorso per cassazione, neanche ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., a meno che il provvedimento non sia censurato, per error in procedendo, nei casi in cui il relativo modello procedimentale sia stato utilizzato al di fuori delle ipotesi consentite dalla legge (da ultimo, Cass. 26 settembre 2018 n. 23151, ove il richiamo a Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2016 n. 1914): ciò che l’istante nemmeno deduce sia avvenuto.
Va rammentato, al riguardo, proprio l’insegnamento delle Sezioni Unite, secondo cui «[a]vuto riguardo ai presupposti del ricorso per violazione di legge previsto dall’art. 111 Cost., comma 7, deve […] escludersi che l’ordinanza in esame sia impugnabile con censure riguardanti il ‘merito’ della controversia, giusta la previsione di rícorribilità per cassazione della sentenza di primo grado e quindi la non definitività, sotto questo profilo, dell’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.» e secondo cui, ancora, le stesse problematiche concernenti la motivazione dell’ordinanza impugnata possono essere censurate, in sede di legittimità, non con la denuncia di un error in iudicando, ma solo «attraverso la denuncia di violazione della legge processuale che sancisce l’obbligo di motivazione» (in termini, Cass., Sez. Un., 2 febbraio 2016 n. 1914 cit., in motivazione).
Questa stessa Corte è venuta per la verità affermando che ove l’ordinanza di inammissibilità del gravame, pronunciata ex artt. 348 bis e 348 ter c.p.c, indichi ulteriori rationes decidendi, del tutto assenti nella sentenza di primo grado, con le quali il giudice di appello abbia corroborato la propria decisione, questa risulterà autonomamente impugnabile nella parte in cui ha aggiunto e integrato la motivazione del giudice di prime cure (Cass. 9 marzo 2018 n. 5655; sulla stessa linea, nel senso dell’impugnabilità per cassazione dell’ordinanza con cui il giudice del gravame rilevi l’inesattezza della motivazione della decisione di primo grado e sostituisca ad essa una diversa argomentazione in punto di fatto o di diritto: Cass. 23 giugno 2017 n. 15644; Cass. 8 febbraio 2018 n. 3023; Cass. 12 ottobre 2018 n. 25366).
E’ tuttavia da escludere che nel caso in esame possa avere ingresso l’impugnazione per cassazione dell’ordinanza ex artt. 348 bis e 348 ter c.p.c. Tale ordinanza ha l’effetto di stabilizzare la sentenza di primo grado (idonea a passare in giudicato in mancanza di impugnazione) attraverso una prognosi sull’inaccoglibilità del gravame. La prognosi non cessa di essere tale — e il provvedimento che ne dà conto non si colloca per ciò solo al di fuori dal modello normativo suo proprio — ove si basi su argomentazioni estranee alla pronuncia del giudice di prima istanza: una estensione in tale direzione dell’apparato motivazionale dell’ordinanza sarà anzi del tutto naturale ove il gravame si fondi su deduzioni, non specificamente esaminate dal giudice di prima istanza, ma articolate dall’appellante, che il giudice di secondo grado reputi manifestamente infondate (atte cioè ad escludere che l’impugnazione presenti, anche con riguardo ad esse, «una ragionevole probabilità di essere accolta»). Tale esito è coerente col sistema: infatti, il quarto comma dell’art. 348 ter c.p.c. preclude possa farsi valere il motivo di cui all’art. 360 n. 5, c.p.c. con riguardo all’ipotesi in cui l’ordinanza di inammissibilità si fondi sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, sicché è lo stesso legislatore a riconoscere, implicitamente, che l’ordinanza pronunciata dal giudice di appello possa non basarsi, puramente e semplicemente, sugli esiti coincidenti, in primo e in secondo grado, della risoluzione della medesima quaestio facti: in quest’ultima ipotesi è infatti precluso dedurre col ricorso per cassazione l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti; nelle altre — tra cui è da ricomprendere il caso in cui la motivazione del giudice di appello non investa quella questione, ma altri temi — la censura in discorso è ammessa (sempre che si controverta, come è ovvio, dell’omesso esame di cui al cit. n. 5). La possibilità che la pronuncia di secondo grado possa basare il giudizio prognostico su «ragioni» diverse da quelle prese in considerazione dal giudice di prima istanza è in altri termini presupposta dall’art. 348 ter (che regolamenta diversamente i casi in cui, con riferimento al giudizio di fatto, quelle «ragioni» siano o meno identiche). 
Pertanto, non è impugnabile per cassazione l’ordinanza ex artt. 348 bis e 348 ter — la quale si attesti sulla formulazione del giudizio meramente prognostico circa il rigetto nel merito dell’appello — per il sol fatto che essa contenga proprie argomentazioni, estranee alla pronuncia di primo grado.
In ogni caso nel ricorso si indica che la stessa sentenza di prime cure (v. pag. 12 riga n. 12 della sentenza) aveva ravvisato una situazione di fatto da ricondurre al comodato, seppure in un’ottica diversa (pag. 23, secondo capoverso, del ricorso qui scrutinato), e che l’ordinanza della Corte di appello ha ritenuto mancante la domanda di immediata restituzione del bene e di risarcimento (pag. 24, secondo capoverso): si tratta della medesima “ratio decidendi”, diversamente specificata, con l’aggiunta, in seconde cure, del richiamo alla nomofilachia quanto alla qualificazione del rapporto e delle conseguenze connesse.
E’ al contempo opportuno osservare che le censure sarebbero state comunque inammissibili, in quanto formulate nel senso palesemente diretto a una rilettura dell’interpretazione fornita delle delibere condominiali, negando il potere del giudice di appello di qualificazione dell’azione.
Del pari è inammissibile il quarto mezzo formulato, in via subordinata, avverso la sentenza del giudice di prime cure non cogliendo la ratio della decisione sul punto.
L’accertamento espresso nella sentenza impugnata, secondo cui la ricostruzione della fattispecie relativa al contratto di locazione di bene comune, con accordo stipulato da un solo comproprietario, configurerebbe – secondo la più recente giurisprudenza – ipotesi di gestione di affari altrui, non integra una pronuncia sulla qualificazione del rapporto intercorso fra il Condominio e la CCCCC quanto alla pensilina, che è stato incontrovertibilmente riferito al comodato, bensì alla ben diversa correlazione fra i comproprietari a fronte di un contratto validamente stipulato con il terzo. Il giudice di merito, infatti, ad abundatiam, afferma che “i comproprietari non locatori non sono parti del contratto e, in assenza di opposizione antecedente alla stipula ex art. 2031, comma 2 c.c., sono tenuti all’adempimento delle obbligazioni derivanti dallo stesso”. Viene, quindi, censurata un’affermazione che non costituisce ratio decidendi ma che il Giudice unico fa solo per rafforzare la statuizione di mancanza dei presupposti per ottenere il risarcimento dei danni per recuperare la mancata utilizzazione della cosa comune ai contitolari.
Pure inammissibile è la quinta censura perché l’assunta violazione di legge si basa e presuppone una diversa valutazione e ricostruzione delle risultanze di causa (quanto alla valutazione della insussistenza di un danno da “illegittima occupazione del bene comune”), censurabile – e solo entro certi limiti – sotto il profilo del vizio di motivazione, secondo il paradigma previsto per la formulazione di detto motivo e nel rispetto dell’art. 54, co. 1, lett. b) , d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla I. 7 agosto 2012, n. 134, che ha nuovamente riformato il testo dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.
Va qui ribadito che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.); viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge ed impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero, erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (in tal senso essenzialmente cfr. Cass. 12 ottobre 2017 n. 24054).
Ora, nel caso in esame, il Tribunale si è limitato ad accertare che, salvo il diritto del Condominio al risarcimento dei danni verso il condomino-locatore ove la sua attività fosse risultata pregiudizievole agli interessi della comunione, con possibilità di azionare la tutela risarcitoria contrattuale per inadempimenti agli obblighi dettati in materia di comodato, circostanza in ordine alla quale non risultava essere stata formulata una apposita domanda per essere stato il risarcimento del danno richiesto nella prospettazione di illegittimità dell’occupazione stessa. Si tratta, come è di tutta evidenza, di una valutazione di merito che, non presentando alcun vizio logico e/o giuridico, non è suscettibile di essere riconsiderata nel giudizio di legittimità non sussistendo alcun insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione: vizi che non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte.
In conclusione, il ricorso principale va dichiarato inammissibile e ciò comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato della YYYYY, con cui si denuncia l’improponibilità dell’appello per violazione dell’art. 329 c.p.c. e si insiste nella domanda in manleva nei confronti della CCCCC per responsabilità contrattuale ex artt. 1575 e 1585 c.c.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore somma pari al contributo unificato per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale ed assorbito il ricorso incidentale condizionato;
condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità che liquida in complessivi euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge per la controricorrente CCCCC e in complessivi euro 3.900,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge in favore della YYYYY
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qualer D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2022

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CASSAZIONE CIVILE SENTENZA N. 12642/2023 DEL 10 MAGGIO 2023

Decreto ingiuntivo – ritiro fascicolo senza restituzione -partecipazione udienza difensore senza delega – Art. 1137 c.-c. – Opposizione decreto ingiuntivo – Art. 63 disp. att. c.c.

Del resto, come affermato dal massimo consesso nomofilattico (Cass. Sez. Un., n. 289 del 1999), la delega conferita dal difensore ad un collega perché lo sostituisca in udienza rappresenta senza dubbio un atto tipico di attività professionale indirizzato all’espletamento dell’incarico ricevuto dal cliente, essendo evidente che il sostituto il quale interviene nel processo in virtù di nient’altro che di detta delega, cioè senza aver ricevuto direttamente alcun mandato dalla parte, non opera per sé ma solo quale longa manus del sostituito e che, quindi, l’attività processuale da lui svolta è riconducibile soltanto all’esercizio professionale di quest’ultimo ed è come se fosse svolta dallo stesso.
Le determinazioni prese dai condomini in assemblea sono da considerare, a tutti gli effetti, come veri e propri atti negoziali, ovvero come coacervo di dichiarazioni individuali, espressione in quanto tale non della volontà dell’assemblea, bensì della maggioranza in essa formatasi, e quindi atto dell’organizzazione condominiale. La delibera costituisce, in sostanza, un momento della gestione condominiale, e in tal senso il problema della sua validità o invalidità è correlato alle ripercussioni che essa ha sulla medesima gestione. Oggetto del giudizio di validità ex art. 1137 c.c. è perciò il valore organizzativo della deliberazione, dovendosi accertare se quel valore merita di essere conservato o va, piuttosto, eliminato con la sentenza di annullamento o con la declaratoria di nullità. La valenza organizzativa emergente dal testo della delibera dell’assemblea costituisce, allora, il coefficiente determinante nella scelta tra la sanzione invalidante e la contrapposta esigenza di stabilità delle deliberazioni in seno alla compagine condominiale e di certezza dei rapporti giuridici instaurati per decisione dell’organo collegiale.
Come da ultimo ulteriormente precisato in Cass. Sez. Unite, 14 aprile 2021, n. 9839, avendosi riguardo a giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest’ultima sia dedotta in via d’azione, mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione, ai sensi dell’art. 1137, comma 2, c.c., e non in via di eccezione.
Nel caso in esame, la Corte di appello di Milano, premesso che il decreto ingiuntivo è stato emesso sulla base delle spese ordinarie e straordinarie indicate nel consuntivo 2012/2013, nel preventivo 2013/2014 e nei relativi stati di riparto, oltre che nel conto di gestione relativo alla nuova centrale termica e annesso riparto, conti approvati dalle delibere condominiali dell’11.03.2013 e del 16.12.2013, atti tutti regolarmente depositati e posti a fondamento del procedimento monitorio ex art. 63 disp. att. c.c., ha esplicitato che esse non sono state impugnate dalla YYYYY (v. pag. 4, ultima parte penultimo capoverso).


S E N T E N Z A

sul ricorso Omissis proposto da:
YYYYY, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avvocato Omissis del foro di Omissis ed elettivamente domiciliata in Omissis, presso lo studio dell’avvocato Omissis;
– ricorrente –
contro
Condominio XXXXX, in persona dell’Amministratore pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Omissis e dal Omissis , entrambi del foro di Milano, come da procura speciale in calce al controricorso ed elettivamente domiciliato in Omissis presso lo studio dell’avvocato Omissis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5079/2017 della Corte di appello di Milano, pubblicata il 4 dicembre 2017;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 7 dicembre 2022 dal Consigliere relatore Dott.ssa Omissis;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. Omissis, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Condominio XXXXX chiedeva ed otteneva dal Tribunale di Milano decreto ingiuntivo n. 20716/2014 per euro 9.479,90 emesso nei confronti della condomina YYYYY per oneri condominiali non corrisposti.
L’intimata proponeva opposizione avverso l’ingiunzione, dinanzi al medesimo Tribunale, che veniva respinta, con sentenza n. 7625 del 2016 risultando provate le voci di spesa dalla documentazione allegata al monitorio, trattandosi di spese condominiali, ordinarie e straordinarie, indicate nel consuntivo 2012-2013, nel preventivo 2013-2014 e nei relativi stati di riparto nonché nel conto preventivo relativo alla nuova centrale termica e dai verbali delle assemblee condominiali tenutesi l’11.03.2013 e il 16.12.2013, dove erano state approvate, rispettivamente, le spese straordinarie per la riqualificazione della centrale termica e per essere il verbale dell’adunanza condominiale redatto nel registro dei verbali che ai sensi dell’art. 2375 c.c. rimaneva depositato presso l’ufficio, inviate le copie alle parti, non provata dalla condomina la difformità della copia all’originale.
In virtù di rituale impugnazione interposta dalla YYYYY, la Corte di appello di Milano, nella resistenza del Condominio appellato, rigettava l’appello e per l’effetto confermava la decisione gravata.
A sostegno della decisione adottata il giudice dell’impugnazione rilevava che correttamente il giudice di prime cure aveva esaminato gli atti contenuti nel fascicolo di parte appellata, che seppure depositato soltanto alcuni giorni prima dell’udienza fissata per la discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c. e comunque scaduto il termine assegnato per il deposito, si trattava di un termine meramente ordinatorio, non trovando nella specie applicazione l’art. 169 c.p.c., ma la libertà delle forme di trattazione. Aggiungeva che il difensore, ai sensi dell’art. 14 della disciplina dell’ordinamento forense, poteva farsi sostituire in udienza da altro avvocato anche per delega verbale.
Nel merito, la documentazione allegata costituiva prova del credito azionato ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c.; del resto la delibera approvata dall’assemblea condominiale, contenente le spese ed il loro riparto e non impugnata, costituiva titolo di credito e di per sé prova dell’esistenza di detto credito che legittimava la concessione del decreto ingiuntivo. Dagli stati di riparto risultavano, altresì, i saldi passivi della condomina per gli esercizi precedenti.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso l’originaria opponente, sulla base di sette motivi, cui ha resistito con controricorso il Condominio.
Posto in discussione il ricorso per la decisione allo stato degli atti all’udienza pubblica del 7 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020, in prossimità della quale è stata depositata dal sostituto procuratore generale, dott. Omissis, memoria con la quale ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Per un’ordinata trattazione occorre esaminare preliminarmente l’eccezione di inammissibilità dedotta nel controricorso per violazione dell’art. 366, comma 1 n. 3 c.p.c.
L’eccezione è infondata. Come statuito da questa Corte, “il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda “sub iudice” posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.” (Cass., Sez. Un., n. 37552 del 2021). Si è anche precisato che non è causa di inammissibilità l’inserimento nel corpo del ricorso di copie fotostatiche o scannerizzate di atti relativi al giudizio di merito, qualora la riproduzione integrale di essi sia preceduta da una chiara sintesi dei punti rilevanti per la risoluzione della questione dedotta (v. Cass., Sez. Un., n. 4324 del 2014).
Il ricorso in esame contiene una adeguata esposizione dei fatti di causa e delle questioni giuridiche sollevate e risolte in primo e in secondo grado; comprende, inoltre, ampie argomentazioni sui dedotti vizi di violazione delle norme specificamente invocate. Si sottrae pertanto alle censure mosse ai sensi del citato art. 366 c.p.c.
Venendo al merito, con il primo motivo la condomina lamenta la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., degli artt. 169 e 281 sexies c.p.c., dell’art. 77 disp. att. c.c., oltre ad asserita violazione della legge per mancato rispetto del contraddittorio e violazione dell’art. 111 Cost. per avere la Corte di merito ritenuta logica e corretta la motivazione quanto alla non perentorietà del termine per il deposito del fascicolo di parte in vista dell’udienza ex art. 281 sexies c.p.c.
La censura è infondata.
Lo schema procedimentale che consente la decisione della controversia ex art. 281 sexies c.p.c., ora anche in appello a seguito dell’introduzione dell’ultimo comma dell’art. 352 c.p.c. ad opera dell’art. 27, comma 1 lett. d) della legge n. 183 del 2011 (norma già vigente alla data in cui è intervenuta la decisione gravata), non contempla come obbligatorio un termine per il deposito del fascicolo di parte ovvero il preventivo scambio di scritti conclusionali, come invece previsto nel diverso modulo procedimentale di cui ai precedenti commi dell’art. 352 c.p.c.
Del resto, i moduli decisori sono quelli previsti dalla legge e non contempla elementi spuri, come la perentorietà del termine entro il quale, a norma dell’art. 169, comma 2 c.p.c., deve avvenire il deposito del fascicolo di parte ritirato al momento della precisazione delle conclusioni, che va riferita solo alla fase decisoria di primo grado e non può in alcun modo operare una volta che il procedimento si trovi in grado di appello, per cui la sua inosservanza produce effetti limitati alla decisione del giudice di prime cure, sicché il deposito del fascicolo nel giudizio di appello non costituisce introduzione di nuove prove documentali, sempre che i documenti contenuti nel fascicolo siano stati prodotti, nel giudizio di primo grado, nell’osservanza delle preclusioni probatorie risultanti dagli artt.165 e 166 c.p.c. (Cass. n. 28462 del 2013; Cass. 29309 del 2017).
Ne consegue che il richiamo all’art 169 c.p.c. deve ritenersi improprio, anche perché previsto per la trattazione scritta, diversamente dal caso in esame in cui si è in presenza di trattazione orale.
In tal senso valga il richiamo a quanto affermato da Cass. n. 26030 del 2014 che ha statuito che nel caso di mancata restituzione del fascicolo di parte, ritualmente ritirato, entro il termine previsto dall’art. 190 c.p.c., il giudice di primo grado deve decidere la causa prescindendo dai documenti in esso contenuti, ma la parte ha la facoltà, alla stregua dell’art. 345 c.p.c., di produrre nuovamente in grado di appello i documenti non esaminati nella decisione appellata, i quali, se ed in quanto ritualmente prodotti in primo grado, non sono qualificabili come “nuovi”.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 14, comma 4 legge n. 247 del 2012 – in riferimento all’art. 360, comma 1 n. 3 e n. 4 c.p.c. – per avere partecipato alla discussione della controversia per il Condominio un legale privo di delega. Nella sostanza viene denunziata l’omessa menzione nel verbale di udienza del 16.06.2016 della presenza dell’avv. Omissis quale sostituta in forza di delega verbale dell’avv. Omissis.
Anche il secondo mezzo è privo di rilievo.
Come dedotto dalla stessa ricorrente, il verbale di udienza indica soltanto che sono presenti le parti, senza ulteriori specificazioni circa la qualità dei rispettivi difensori o di semplici sostituti.
Orbene, l’eventuale abuso compiuto dall’avv. Omissis non è invocabile dalla ricorrente a sostegno della denunciata nullità della sentenza, atteso che anche l’eventuale difetto di legittimazione del sostituto, ove privo di delega, è deducibile soltanto dalla parte il cui procuratore sia stato irregolarmente sostituito (cfr, Cass. n. 12597 del 2001; Cass. n. 1574 del 1996; Cass. n. 12784 del 1995).
Del resto, come affermato dal massimo consesso nomofilattico (Cass. Sez. Un., n. 289 del 1999), la delega conferita dal difensore ad un collega perché lo sostituisca in udienza rappresenta senza dubbio un atto tipico di attività professionale indirizzato all’espletamento dell’incarico ricevuto dal cliente, essendo evidente che il sostituto il quale interviene nel processo in virtù di nient’altro che di detta delega, cioè senza aver ricevuto direttamente alcun mandato dalla parte, non opera per sé ma solo quale longa manus del sostituito e che, quindi, l’attività processuale da lui svolta è riconducibile soltanto all’esercizio professionale di quest’ultimo ed è come se fosse svolta dallo stesso.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la carenza dei presupposti per l’emissione del decreto in mancanza di prova scritta – difetto di firma dei verbali prodotti e nullità delle delibere, con violazione degli artt. 633 e 634 c.p.c. e dell’art. 1421 c.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c. non potendo essere la prova scritta del presunto credito da parte del Condominio costituita da copia del verbale dichiarata conforme all’originale dall’amministratore non avendo questi potere certificativo al riguardo.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia l’omessa motivazione sull’accertamento della reale posizione debitoria della YYYYY ed insussistenza della prova della posizione debitoria della medesima, con violazione dell’art. 1135 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. anche per insufficiente motivazione.
Le due censure – da trattare unitariamente per la evidente connessione argomentativa che le avvince – sono in parte infondate e in parte inammissibili.
Le determinazioni prese dai condomini in assemblea sono da considerare, a tutti gli effetti, come veri e propri atti negoziali, ovvero come coacervo di dichiarazioni individuali, espressione in quanto tale non della volontà dell’assemblea, bensì della maggioranza in essa formatasi, e quindi atto dell’organizzazione condominiale. La delibera costituisce, in sostanza, un momento della gestione condominiale, e in tal senso il problema della sua validità o invalidità è correlato alle ripercussioni che essa ha sulla medesima gestione. Oggetto del giudizio di validità ex art. 1137 c.c. è perciò il valore organizzativo della deliberazione, dovendosi accertare se quel valore merita di essere conservato o va, piuttosto, eliminato con la sentenza di annullamento o con la declaratoria di nullità. La valenza organizzativa emergente dal testo della delibera dell’assemblea costituisce, allora, il coefficiente determinante nella scelta tra la sanzione invalidante e la contrapposta esigenza di stabilità delle deliberazioni in seno alla compagine condominiale e di certezza dei rapporti giuridici instaurati per decisione dell’organo collegiale.
Come da ultimo ulteriormente precisato in Cass. Sez. Unite, 14 aprile 2021, n. 9839, avendosi riguardo a giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per la riscossione di contributi condominiali, il giudice può sindacare sia la nullità dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio della deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità di tale deliberazione, a condizione che quest’ultima sia dedotta in via d’azione, mediante apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione, ai sensi dell’art. 1137, comma 2, c.c., e non in via di eccezione.
Nel caso in esame, la Corte di appello di Milano, premesso che il decreto ingiuntivo è stato emesso sulla base delle spese ordinarie e straordinarie indicate nel consuntivo 2012/2013, nel preventivo 2013/2014 e nei relativi stati di riparto, oltre che nel conto di gestione relativo alla nuova centrale termica e annesso riparto, conti approvati dalle delibere condominiali dell’11.03.2013 e del 16.12.2013, atti tutti regolarmente depositati e posti a fondamento del procedimento monitorio ex art. 63 disp. att. c.c., ha esplicitato che esse non sono state impugnate dalla YYYYY (v. pag. 4, ultima parte penultimo capoverso).

La Corte distrettuale ha, dunque, fatto buon governo dei principi sopra enunciati e nessuna può essere mossa al riguardo.
Lo stesso art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – denunciato con il quarto mezzo – concerne, comunque, il vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che il difetto di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora i fatti storici, rilevanti in causa, siano stati comunque presi in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. Un., n. 8053 del 2014).
I due motivi di ricorso allegano, piuttosto, dati di fatto (sovente senza precisare il “come” e il “quando” fossero stati tempestivamente dedotti già nel giudizio di primo, prima della maturazione delle preclusioni, senza così rispettare la previsione dell’art. 366, comma 1 n. 6, c.p.c.), al malcelato fine di sollecitare una rivalutazione delle risultanze probatorie nel senso più favorevole alle tesi difensive del ricorrente, il che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, attività non consentita in sede di legittimità.
Con il quinto motivo la condomina deduce l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia relativo alla mancata ammissione della c.t.u. richiesta dall’appellante, con violazione degli artt. 191 e 61 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. per non essere comprensibile come nell’arco di poco più di un anno e mezzo si sia raggiunta la somma ingiunta stante la modesta dimensione degli immobili, complessivamente di circa 100 mq.
Il mezzo è inammissibile perché la sentenza impugnata ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte di legittimità.
Come più volte ribadito da questa Corte, la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, con la conseguenza che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (cfr, ex plurimis, Cass. n. 10373 del 2019; Cass. n. 30218 del 2017).
Con il sesto motivo la ricorrente, quanto alle spese del giudizio, denuncia la mancata partecipazione alla procedura di mediazione dell’Amministratore del Condominio, in particolare non avrebbe neanche effettuato la messa in mora della stessa ex art. 1229 c.c.
Il motivo è infondato, in quanto dalle stesse circostanze dedotte nella censura risulta che la mediazione fra le parti vi è stata (v. pag. 19 del ricorso), ma non è andata a buon fine per non avere il rappresentante del Condominio transatto la lite per mancata accettazione del pagamento rateizzato del credito preteso, come proposto dalla condomina. In tal senso l’esito della mediazione può incidere – come asserito dalla stessa ricorrente – solo sulla liquidazione delle spese di lite.
Con il settimo motivo la ricorrente assume che qualificando la sentenza di primo grado come dichiarativa, doveva essere ritenuta provvisoriamente esecutiva solo con riferimento alla statuizione condannatoria del capo relativo alle spese di lite, mentre gli effetti costituitivi e dichiarativi divenivano tali solo con il passaggio in giudicato, ragione per la quale non poteva essere avviata azione esecutiva se non sulla base del minor importo, contestato, relativo alle spese di giudizio.
Anche siffatta censura non può trovare ingresso.
Premesso che l’obbligo di ciascun condomino di contribuire alle spese necessarie per la conservazione delle parti comuni e per l’esercizio dei servizi condominiali deriva dalla titolarità del diritto reale sullo immobile e integra un’obbligazione “propter rem” preesistente all’approvazione, da parte dell’assemblea, dello stato di ripartizione il quale, perciò, non ha valore costitutivo ma soltanto dichiarativo del relativo credito del condominio in rapporto alla quota di contribuzione dovuta dal singolo partecipante alla comunione.
Ne consegue che, come già ritenuto da questa Corte (Cass. n. 24171 del 2020) il giudice dell’impugnazione, solo ove riformi (per ragioni di rito o di merito) la decisione gravata, ha il potere, ma non l’obbligo, purché ne ricorrano i presupposti e non siano necessari accertamenti in fatto che comportino un ampliamento del “thema decidendum”, di pronunciarsi d’ufficio sui conseguenti effetti restitutori e/o ripristinatori poiché – come si evince dagli artt. 389 e 402 c.p.c. – tali effetti non discendono “ipso facto” dalla sentenza riformata o cassata, con la conseguenza che la parte interessata può proporre la relativa domanda in sede di impugnazione ovvero instaurando un autonomo giudizio.
Né la ricorrente chiarisce la ragione di siffatta doglianza, non avendo neanche dedotto l’introduzione di un giudizio di esecuzione da parte del Condominio, che comunque troverebbe il suo fondamento nella presente pronuncia. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Ne consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese sostenute dalla controricorrente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente delle spese di legittimità che liquida in complessivi euro 2.600,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qualer D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2022.

CategoriesSentenze Civili

CASSAZIONE CIVILE SENTENZA N. 12644/2023 DEL 10 MAGGIO 2023

Art. 1127 c.c. – Sopraelevazione  – Decoro Architettonico 

Occorre premettere che la Corte di merito ha fatto corretta applicazione del principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui, il giudicato formatosi sulla domanda possessoria, quale quella su cui ha pronunciato il Pretore di Roma, è privo di efficacia nel giudizio petitorio come quello odierno, avente a oggetto l’accertamento del diritto delle ricorrenti a mantenere sulla terrazza di copertura del fabbricato condominiale le costruzioni in contestazione, in quanto il possesso utile alla realizzazione delle stesse deve avere requisiti che non vengono in rilievo nei giudizi possessori. Nel giudizio possessorio l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso, perché è finalizzato a dare tutela a una mera situazione di fatto avente i caratteri esteriori della proprietà o di un altro diritto reale, sicchè l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso (Cass. 16 aprile 2019 n. 10590; Cass. 5 ottobre 2009 n. 21233).
E’ noto come l’art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.
L’aspetto architettonico, cui si riferisce l’art. 1127, comma 3 c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122- bis c.c., dovendo l’intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore. Il giudizio relativo all’impatto della sopraelevazione sull’aspetto architettonico dell’edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile condominiale, e verificando altresì l’esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato (cfr. Cass. 28 giugno 2017 n. 16258; Cass. 15 novembre 2016 n. 23256; Cass. 24 aprile 2013 n. 10048; Cass. 7 febbraio 2008 n. 2865; Cass. 22 gennaio 2004 n. 1025; Cass. 7 febbraio 1998 n. 1297; Cass. 27 aprile 1989 n. 1947).
D’altro canto, questa Corte ha anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l’una dall’altra, sicché anche l’intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. 23 luglio 2020 n. 15675; Cass. 12 settembre 2018 n. 22156; Cass. 25 agosto 2016 n. 17350).
Ora, perché rilevi la tutela dell’aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell’art. 1127, comma 3 c.c., e non già dell’art. 1120, comma 2 c.c., erroneamente indicato dalla Corte distrettuale, che in tal senso va corretta, non occorre neppure che l’edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia.
Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento.


S E N T E N Z A

sul ricorso Omissis proposto da:
YYYYY, rappresentate e difese, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avvocato Omissis ed elettivamente domiciliate in Omissis, presso lo studio del difensore;
– ricorrenti –
contro
EEEEE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Omissis come da procura speciale notarile dott. Omissis rep. n. Omissis del 18.02.2021 ed elettivamente domiciliata in Omissis, presso lo studio del difensore;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7463/2017 della Corte di appello di Roma, pubblicata il 27 novembre 2017 e notificata in data 22 dicembre 2017;
udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 7 dicembre 2022 dal Consigliere relatore Dott.ssa Omissis;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Omissis, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
sentito l’avvocato Omissis, per parte ricorrente e l’avvocato Omissis, per parte resistente.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 23 novembre 2006 la EEEEE nella qualità di proprietaria dell’intero stabile sito in Omissis, fatta eccezione dell’appartamento sito al piano terzo, int. 7, evocava – dinanzi al Tribunale di Roma – YYYYY proprietarie della predetta abitazione, esponendo che le stesse avevano realizzato sulla terrazza di copertura del fabbricato un manufatto che occupava una superficie superiore ai 20 mq di proprietà esclusiva delle medesime, così invadendo parte del terrazzo comune in violazione del diritto di pari uso degli altri condomini ex art. 1102 c.c., oltre ad essere in contrasto rispetto alle distanze legali e creando una servitù sul bene comune;
deturpava, altresì, il decoro architettonico del fabbricato, per essere stata la veranda realizzata in uno stile diverso da quello della costruzione originaria, costituendo anche una minaccia per la stabilità dello stabile; infine, ostruiva il normale deflusso delle acque meteoriche e la pulizia del terrazzo, impedendo la visuale ad altro edificio di proprietà della stessa società attrice;
chiedeva, pertanto, in via principale, la condanna delle convenute alla eliminazione del manufatto in muratura, in ferro e vetro, costruito sul terrazzo di copertura del fabbricato; in via subordinata, la loro condanna alla riduzione delle dimensioni del manufatto in modo che lo stesso non fuoriuscisse dalla proprietà di terrazza esclusiva delle convenute, pari a mq. 20 su 100;
ovvero la condanna delle stesse ad arretrare il manufatto in questione e, in ogni caso, al risarcimento dei danni.
Instaurato il contraddittorio, resistevano la YYYYY, eccepito il difetto di legittimazione passiva dalla seconda per essere solo stata per un breve periodo comodataria del bene, mentre la prima assumeva, nel merito, di avere da tempo immemore (ai fini dell’usucapione) utilizzato detta porzione di terrazzo a seguito dei lavori eseguiti dalla stessa società attrice nell’anno 1973, oltre a svolgere domanda riconvenzionale per avere l’attrice installato sul terrazzo condominiale un’apparecchiatura motocondensante e per essersi appropriata di una porzione del terrazzo comune accorpandola all’appartamento int. 12 di proprietà della società, per cui chiedeva il rilascio della porzione e la rimozione di entrambe le opere.
Il giudice adito, con sentenza n. 14348 del 2012, accoglieva le domande attoree e per l’effetto condannava la YYYYY alla rimozione del manufatto realizzato sul terrazzo di copertura, oltre al risarcimento dei danni liquidati in euro 5.000,00 oltre accessori, rigettata la riconvenzionale.
In virtù di rituale impugnazione interposta dalla YYYYY, la Corte di appello di Roma, nella resistenza della società appellata, rigettava l’appello e per l’effetto confermava la decisione gravata.
A sostegno della decisione adottata il giudice dell’impugnazione, condividendo le affermazioni del giudice di prime cure, rilevava che il manufatto oggetto di causa era stato realizzato con materiali e colori che lo rendevano immediatamente evidente come corpo estraneo alla costruzione originale, rendendolo visibile anche dalla viabilità circostante in considerazione peraltro della volumetria; con la conseguenza che l’unico rimedio possibile appariva la rimozione del manufatto. Né le appellanti avevano fornito prova rigorosa che la YYYYY e i suoi danti causa, Omissis, avevano utilizzato in modo pieno ed esclusivo la porzione di terrazza di proprietà condominiale, area sulla quale peraltro fino agli anni 1971-1973 erano stati posti la cabina idrica e le fontane.
Trovando applicazione nella specie l’art. 1102, comma 2 c.c., il comproprietario poteva usucapire la res communis solo dimostrando di avere goduto del bene in modo inconciliabile con la possibilità del godimento altrui, per cui doveva essere ritenuta irrilevante l’eccezione di decadenza formulata dall’appellata ma non riproposta in sede di conclusioni nell’atto di appello, anche se in verità ribadita come doglianza in modo esplicito nel corpo dell’atto.
Pure infondato era il motivo relativo al risarcimento dei danni liquidati in via equitativa, senza alcuna prova data del danno derivato dall’alterazione del decoro architettonico, ricomprendendo comunque l’accertata occupazione sine titulo di porzione comune della terrazza in via esclusiva.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello capitolina hanno proposto ricorso le originarie convenute, sulla base di otto motivi, cui ha resistito la EEEEE con controricorso.
Posto in discussione il ricorso per la decisione allo stato degli atti all’udienza pubblica del 7 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. n. 137 del 2020, conv. in legge n. 176 del 2020, in prossimità della quale è stata depositata dal sostituto procuratore generale, dott. Omissis, memoria con la quale ha rassegnato le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso, parte ricorrente ha formulato istanza di discussione orale della controversia.
Parte ricorrente ha curato il depositato anche di memoria ex art. 378 c.p.c.

CONSIDERATO IN DIRITTO Occorre premettere per un’ordinata trattazione che la deduzione di inammissibilità dei motivi di ricorso, escluso il n. 4, formulata nel controricorso verrà esaminata nell’ambito di ciascun mezzo.
Venendo al merito, con il primo motivo la YYYYY lamenta la violazione e la falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., dell’art. 2909 c.c. in riferimento al giudicato di cui alla sentenza del Pretore di Roma n. 3491 del 27.05.1996 per non avere l’ausiliario del giudice tenuto conto di siffatto pronunciamento per un raffronto da un punto di vista tecnico e materiale del manufatto de qua pur essendo lo stesso ubicato nel medesimo luogo in cui insiste quello oggetto della controversia. È stato il giudice del gravame a desumere, secondo una propria valutazione, una diversità assoluta dei due manufatti, valorizzando un’unica frase contenuta nella relazione tecnica del c.t.u., verifica dunque non suffragata dai necessari riscontri. Peraltro, in siffatta pronuncia intervenuta in giudizio possessorio, il Pretore aveva analiticamente esaminato anche le modalità di verifica della presunta lesione del decoro architettonico concentrata sul medesimo ambiente di riferimento (edificio e terrazza), ossia con una valutazione di confronto con lo stato di quest’ultimo, sicchè non si poteva negare a priori una qualche incidenza senza una doverosa verifica, che nella specie non sarebbe stata fatta.
Il motivo è manifestamente infondato.
Occorre premettere che la Corte di merito ha fatto corretta applicazione del principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui, il giudicato formatosi sulla domanda possessoria, quale quella su cui ha pronunciato il Pretore di Roma, è privo di efficacia nel giudizio petitorio come quello odierno, avente a oggetto l’accertamento del diritto delle ricorrenti a mantenere sulla terrazza di copertura del fabbricato condominiale le costruzioni in contestazione, in quanto il possesso utile alla realizzazione delle stesse deve avere requisiti che non vengono in rilievo nei giudizi possessori. Nel giudizio possessorio l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso, perché è finalizzato a dare tutela a una mera situazione di fatto avente i caratteri esteriori della proprietà o di un altro diritto reale, sicchè l’accoglimento della domanda prescinde dall’accertamento della legittimità del possesso (Cass. 16 aprile 2019 n. 10590; Cass. 5 ottobre 2009 n. 21233).
Tanto premesso, quanto alla doglianza concernente la valutazione della relazione di consulenza da parte del giudice, osserva il Collegio che se il giudice di merito, per la soluzione di questioni di natura tecnica o scientifica, può ben fare ricorso alle conoscenze specialistiche che abbia acquisito direttamente attraverso studi o ricerche personali (Cass. 26 giugno 2007 n. 14759), a fortiori non gli può essere precluso l’esame diretto della documentazione a sua volta esaminata dal consulente, vigendo il principio judex peritus peritorum, per cui il giudice di merito può disattendere le argomentazioni tecniche svolte nella relazione dal consulente tecnico d’ufficio, e ciò sia quando le motivazioni stesse siano intimamente contraddittorie, sia quando il giudice sostituisca a esse altre argomentazioni, tratte da proprie personali cognizioni tecniche, con l’unico onere di un’adeguata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto. (Cass. 7 agosto 2014 n. 17757).
Ed è quanto è occorso nella specie in cui la Corte, nel condividere il convincimento del giudice di prime cure, che a sua volta aveva recepito le conclusioni dell’ausiliare nominato, ha evidenziato che il manufatto in contestazione altera la fisionomia generale del fabbricato sia per la scelta del colore (verde) sia per i materiali utilizzati (struttura metallica composta di pannelli e montanti di colore verde, con ampie superfici vetrate) per la sua realizzazione che “lo rendono immediatamente evidente come corpo estraneo alla costruzione originale”, tanto da renderlo “ben visibile dalla viabilità circostante ed il suo impatto visivo è legato alla tipologia e colori dei materiali scelti nonché alla sua volumetria”.
Dunque, la Corte distrettuale ha apprezzato gli elementi di giudizio raccolti dal c.t.u. e riportati nella relazione, tanto da richiamarla in più parti (v. pagine 5, 7 e 9 della perizia), ritenendoli più convincenti rispetto agli ulteriori prospettati dalle convenute/appellanti ai fini della valutazione della lesione del decoro architettonico dell’edificio.
Alla luce delle considerazioni che precedono deve rilevarsi che la Corte territoriale non si è affatto astenuta dall’effettuare una valutazione di confronto con lo stato complessivo dei luoghi, come sostenuto dalle ricorrenti, laddove deducono che non si sarebbe tenuto conto della lesione del decoro architettonico concentrata sul medesimo ambiente di riferimento, tanto da avere effettuato una comparazione anche con il manufatto realizzato dalle stesse ed esaminato nel giudizio pretorile (“struttura di metallo che sorregge una tenda” o come orditura in profilati metallici scatolari con soprastante tendone).
La Corte, tenendo conto degli accertamenti tecnici evidenziati dal c.t.u., ha fornito di detti elementi una congrua valutazione ai fini qui rilevanti, correlandola alla situazione concreta. Non sussiste, pertanto, la denunciata violazione di norme, per essersi il Giudice del gravame uniformato ai principi esposti da questa Corte come sopra illustrati, argomentata peraltro l’adesione prestata dalla Corte di Roma alle conclusioni peritali quale giudice di merito, con valutazione che non può essere sindacata in sede di legittimità invocando dalla Corte di cassazione nella sostanza un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in maniera da pervenire ad una nuova validazione e legittimazione dei risultati dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione – ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. – dell’art. 1120 c.c. e dell’art. 1127 c.c. per avere la Corte distrettuale espresso una valutazione netta di violazione del decoro architettonico, come contemplato dall’art. 1120, in asserita adesione al c.t.u. di primo grado, senza tenere in alcun conto la nozione di decoro architettonico espressa dall’art. 1127, comma 3 c.c. Ad avviso delle ricorrenti, infatti, l’occupazione della zona di terrazza di proprietà comune sarebbe di soli mq. 1,30 o addirittura di mq. 1, come rilevato dallo stesso ausiliario, per cui la questione del decoro avrebbe dovuto essere trattata alla luce del concetto di una vera e propria sopraelevazione, per essere stato il manufatto realizzato sostanzialmente sulla loro proprietà esclusiva e al di sopra del loro appartamento. Di qui la nozione attenuata di decoro architettonico.
Con il terzo motivo le ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1120 c.c. ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., per essere stata valutata dal giudice di appello, sulla base delle conclusioni del c.t.u., il decoro architettonico senza tenere in alcun conto le altre opere presenti sulla medesima terrazza pur rilevate dall’ausiliario ma non esaminate ritenendole al di fuori del quesito posto dal giudice. Dunque, ad avviso delle ricorrenti sarebbe mancato da parte del giudice quella valutazione complessiva necessaria per la verifica dell’alterazione del decoro architettonico.
I due motivi vanno esaminati contestualmente, stante la loro connessione oggettiva, che attiene al punto nodale della controversia relativo al pregiudizio dell’ornato. Essi sono infondati anche se occorre procedere alla correzione ex art. 384, comma 4 c.p.c. della motivazione in punto di diritto.
E’ noto come l’art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell’ultimo piano dell’edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell’edificio che non la consentono, ovvero dall’aspetto architettonico dell’edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.
L’aspetto architettonico, cui si riferisce l’art. 1127, comma 3 c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122- bis c.c., dovendo l’intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore. Il giudizio relativo all’impatto della sopraelevazione sull’aspetto architettonico dell’edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell’immobile condominiale, e verificando altresì l’esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato (cfr. Cass. 28 giugno 2017 n. 16258; Cass. 15 novembre 2016 n. 23256; Cass. 24 aprile 2013 n. 10048; Cass. 7 febbraio 2008 n. 2865; Cass. 22 gennaio 2004 n. 1025; Cass. 7 febbraio 1998 n. 1297; Cass. 27 aprile 1989 n. 1947).
D’altro canto, questa Corte ha anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l’una dall’altra, sicché anche l’intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l’originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. 23 luglio 2020 n. 15675; Cass. 12 settembre 2018 n. 22156; Cass. 25 agosto 2016 n. 17350).
Ora, perché rilevi la tutela dell’aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell’art. 1127, comma 3 c.c., e non già dell’art. 1120, comma 2 c.c., erroneamente indicato dalla Corte distrettuale, che in tal senso va corretta, non occorre neppure che l’edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia.
Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento.

Ciò premesso, la Corte di Roma – in conformità ai principi sopra ricordati – ha riconosciuto che la sopraelevazione realizzata dalla condomina YYYYY, anche all’esito delle modifiche apportate dopo la prima realizzazione del manufatto nel 1976, rivelasse carattere pregiudizievole per l’aspetto architettonico complessivo dei fronti dell’edificio, ai sensi dell’articolo 1127 c.c., in particolare per l’alterazione del decoro avendo creato un volume uniforme di colore verde contrastante con le tinte dell’edificio, oltre che per la modifica dei rapporti volumetrici dell’ultimo piano, giacché eseguita con materiali difformi da quelli del prospetto sottostante.
In tal modo, la sentenza impugnata ha fornito una motivazione adeguata e pienamente condivisibile alla stregua del comune senso estetico, sottolineando come il manufatto disperdesse quella uniformità che attribuisce all’edificio un aspetto ancora ordinato e dignitoso.
La preesistenza di modifiche già apportate, dedotta nel terzo motivo di ricorso, anche con le opere realizzate sul lastrico di opere da parte di altri condomini, non rende certamente ex sé ininfluente la lesione attribuita al manufatto eretto dalla YYYYY e non ne possono perciò costituire valida giustificazione.
Come affermato da questa Corte (v. in termini, Cass. 22 ottobre 2021 n. 29584), il concetto di “aspetto architettonico”, come tutti quelli elaborati dalle scienze idiografiche (qual è appunto l’architettura), che non poggiano su leggi generalizzabili, ma studiano oggetti singoli, non è connotato dall’assolutezza dell’inferenza induttiva tipica delle scienze che, al contrario, elaborano frequenze statistiche direttamente rilevanti per l’accertamento del fatto litigioso. Si tratta, perciò, di nozione che la legge configura con disposizione delineante un modulo generico, il quale richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante l’accertamento della concreta ricorrenza, nella vicenda dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo, ponendosi sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici.
Il giudice d’appello, pur non ricostruendo i rapporti tra i due criteri, ha comunque posto alla base della propria decisione parametri ben più ampi rispetto alla alterazione qualsiasi dell’aspetto del Condominio, cioè della pur minima variazione dello stesso, rilevando come la realizzazione del manufatto contestato, dati i materiali utilizzati, i suoi caratteri strumentali di stabilità e inamovibilità, nonché le sue dimensioni notevoli e la sua incidenza sul volume del fabbricato, abbia realizzato una significativa alterazione dell’aspetto architettonico, con accertamento di merito non censurabile – per quanto sopra detto – in sede di legittimità.
Con il quarto motivo le ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. per avere la Corte di merito omesso di pronunciare non solo sulla domanda principale di avere realizzato il manufatto sulla propria area, ma anche a voler ritenerne l’implicito rigetto, non avrebbe tenuto conto di quella subordinata che chiedeva la determinazione della esatta misurazione della porzione di terrazza condominiale occupata con il manufatto medesimo.
Con il quinto motivo le ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1120 e 1127 c.c. per avere la Corte di merito statuito per la demolizione integrale dell’opera in luogo di rimedi meno gravi e invasivi, come l’arretramento del manufatto per 1 mq circa, ossia per la parte che il c.t.u. ha accertato ingombrare la terrazza comune.
Con il sesto motivo le ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c. per omesso esame della medesima circostanza di cui al mezzo n. 5, ossia di soluzioni di ripristino alternative alla demolizione in coerenza con la violazione in concreto riscontrata dal c.t.u., tenendo conto che l’ausiliare aveva rilevato la necessità dell’arretramento del manufatto con la sua ricostruzione nei limiti dei confini della proprietà esclusiva delle ricorrenti e con tipologia di colori e di materiali conformi allo stile del fabbricato.
Con il settimo motivo viene denunciata ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1102, comma 2 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto che la condotta delle condomine ricorrenti di occupazione in via esclusiva di una porzione del terrazzo comune di solo 1 mq integri una inconciliabilità con il godimento da parte degli altri condomini.
Gli ultimi quattro motivi vanno esaminatati unitariamente per la intima connessione argomentativa che li avvince. Essi sono infondati.
Al giudizio formulato dalla Corte in ordine al pregiudizio al decoro architettonico dell’edificio, il quarto motivo deduce due profili di illegittimità, che attengono alla omessa pronuncia su due diverse domande, per non avere la corte a tal fine considerato la domanda subordinata di esatta misurazione della porzione di terrazza condominiale occupata con il manufatto. Premesso che le censure in esso sollevate non investono direttamente la ratio della sentenza impugnata, che ha disposto la rimozione dell’opera, e precisato che la misurazione dello spazio occupato è stato ampiamente documentato (“dalla sovrapposizione della planimetria catastale del 1976 e la planimetria dello stato attuale si osserva che la struttura realizzata dalle convenute occupa una parte della terrazza comune”), ad integrazione della motivazione fornita dalla sentenza impugnata, la cui statuizione finale va senz’altro condivisa, merita rilevare che la domanda proposta dalla YYYYY, diretta in sostanza ad ottenere una misura alternativa alla rimozione del manufatto dalla stessa realizzato sul terrazzo del fabbricato, non tiene conto della valutazione operata dal Giudice di merito secondo cui la sola riduzione in pristino della copertura originaria costituiva rimedio per poter porre riparo alla lesione del decoro architettonico (v. pag. 4 secondo cpv della sentenza impugnata), che non poteva essere diversamente eliminata, basandosi la tutela apprestata allo schema di una negatoria servitutis, per essere stata creata un’illegittima servitù a carico di una proprietà condominiale ma in favore di una proprietà esclusiva attigua appartenente alle stesse ricorrenti.
Il rigetto del quarto motivo conduce a ritenere inammissibili le restanti censure che rimangono superate dalle considerazioni appena svolte per l’assorbente considerazione che la valutazione che la Corte di appello è stata chiamata a formulare ed ha svolto aveva ad oggetto non il manufatto, in sé considerato, ma la sua incidenza sul terrazzo di copertura dell’edificio, quale bene comune e struttura che contribuisce a delineare l’aspetto architettonico del fabbricato.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Ne consegue la condanna delle ricorrenti in solido al pagamento delle spese sostenute dalla controricorrente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;
condanna le ricorrenti in solido alla rifusione in favore del controricorrente delle spese di legittimità che liquida in complessivi euro 4.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qualer D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 7 dicembre 2022.